Di Francesca Garisto * e Fabio Savoldelli **
In questa fase di emergenza sorge la necessità, tra le altre, di interpretare i diversi provvedimenti e protocolli che modificano sensibilmente la nostra vita di relazione e lavorativa. Ci si domanda in particolare se a seguito della sottoscrizione, da parte del Governo e delle parti sociali, del Protocollo del 14/3/2020 per il contenimento della diffusione del Covid-19 negli ambienti di lavoro, occorra intervenire o meno sul Documento di Valutazione dei Rischi.
Infatti, all’indomani dell’esplosione dell’epidemia del virus Sars-CoV-2 è emerso il problema relativo all’eventuale necessità di aggiornare la valutazione dei rischi, la quale, come prevede l’art. 29 co. 3 d.lgs. n. 81/2008, “deve essere immediatamente rielaborata (…) in occasione di modifiche del processo produttivo o della organizzazione del lavoro significative ai fini della salute e sicurezza dei lavoratori (…), con il conseguente aggiornamento delle misure di prevenzione”.
Una valutazione dei rischi che rappresenta la “valutazione globale e documentata di tutti i rischi per la salute e sicurezza dei lavoratori presenti nell’ambito dell’organizzazione in cui essi prestano la propria attività (…)” (art. 2 lett. q d.lgs. 81/2008).
A sostegno della tesi che escluderebbe la necessità di aggiornamento del Dvr si pone sostanzialmente il seguente argomento. Il riferimento operato dall’art. 28 a “tutti i rischi” per la salute e sicurezza dei lavoratori non varrebbe a identificare una gamma indefinita di eventualità pregiudizievoli, ma solo quelle connesse all’attività produttiva, i “rischi professionali”, come indicato dalla definizione di “servizio di prevenzione e protezione” contenuta nell’art. 2 co. 1 lett. l) del d.lgs. 81/2008.
Ciò premesso, a conferma della tesi secondo cui il Dvr non andrebbe aggiornato con il rischio biologico da contagio di Covid-19, si evidenzia come, fatte salve le attività lavorative (ospedali, pronto soccorso, addetti ai servizi aeroportuali o alle forze dell’ordine), elettivamente destinate a entrare direttamente o indirettamente in contatto con l’agente biologico, negli altri casi non si tratterebbe di un rischio professionale, ma di un rischio generico, equamente distribuito fra l’intera popolazione.
Tale argomento tuttavia non appare condivisibile. Sebbene infatti sia stata dichiarata la pandemia e il virus sia diffuso in quasi tutto il mondo, non in ogni parte del mondo il virus è diffuso allo stesso modo: in Italia è diffuso diversamente rispetto alla Scandinavia, a Milano è diffuso diversamente rispetto a Trento, e persino nella stessa area metropolitana milanese il virus è diffuso diversamente fra il centro storico e l’area circostante e Cinisello Balsamo. A una differente diffusione del virus consegue così una differenziazione del rischio da contagio per le aziende a seconda del territorio di appartenenza, che quindi non appare definibile come “generico”.
Inoltre, anche volendo trascurare questo dato, occorre considerare che in un momento in cui i provvedimenti del Governo impongono alla totalità della popolazione l’isolamento domestico, coloro che sono ancora tenuti a svolgere un’attività lavorativa soffrono certamente un’esposizione al contagio esponenzialmente superiore rispetto al resto della popolazione, al punto da poter considerare il rischio da contagio un rischio connesso all’organizzazione aziendale.
Se è vero, quindi, come è vero, che l’eventualità di contagio da Covid-19 non può essere considerata, fatte salve le ipotesi già citate, un rischio professionale di tutte le aziende, è altrettanto vero che lo stesso rischio non può essere rinchiuso nell’angusto concetto di rischio generico.
A questo proposito, la Commissione Interpelli ha già avuto modo di precisare che l’analisi dei rischi prevista dall’art. 28 del D.Lgs. 81/2008 deve comprendere anche “l’analisi di tutti i potenziali e peculiari rischi ambientali legati alle caratteristiche del Paese in cui la prestazione lavorativa dovrà essere svolta, quali a titolo esemplificativo, i cosiddetti “rischi generici aggravati”, legati alla situazione geopolitica del Paese (es. guerre civili, attentati, ecc.) e alle condizioni sanitarie del contesto geografico di riferimento, non considerati astrattamente, ma che abbiano la ragionevole e concreta possibilità di manifestarsi in correlazione all’attività lavorativa” (Interpello n. 19841 del 25/10/2016).
Un’ulteriore ragione per la quale appare necessario procedere all’aggiornamento del Dvr, che sussiste anche laddove si intenda qualificare il rischio contagio da Covid-19 come generico, è la necessità di implementare le misure di sicurezza stabilite dal Protocollo nei processi organizzativi dell’impresa. Tali misure determinano infatti significative implicazioni in diversi settori dell’organizzazione aziendale.
Si pensi, fra tutte, alla necessità di assicurare in ogni momento della giornata lavorativa la distanza di almeno un metro fra i lavoratori, che comporterà la necessità di ridisegnare le modalità di ingresso e di uscita dai locali di lavoro, di riorganizzazione le mense, gli orari di pausa, oltre all’eventualità di ricorrere alla turnazione del personale dipendente, con conseguente rimodulazione dei livelli produttivi.
Le disposizioni previste dal Protocollo, pertanto, necessitano di essere implementate nei processi aziendali con delle precise procedure esecutive, al fine adattarle plasticamente alle diverse realtà lavorative e garantire una reale tutela della sicurezza dei lavoratori. Diversamente, le nuove misure anti contagio verrebbero calate nei diversi contesti aziendali rigidamente, senza subire adattamenti, equiparando così, sotto il profilo prevenzionistico, l’impresa che conta 5 dipendenti con quella che ne conta 200, e quella situata al centro di un focolaio di contagio a quella operante in una zona meno esposta allo stesso rischio.
In ogni caso, laddove non si intendesse aggiornare il Dvr, gli operatori della sicurezza aziendale possono considerare l’opportunità, come consigliato dall’Associazione professionale Italiana Ambiente e Sicurezza (Aias), di integrare il Dvr già adottato con un addendum a parte, che preveda, quantomeno, le modalità di applicazione delle direttive pubbliche contenute nel Protocollo, tenendo presente che almeno fino a quando saranno in vigore le attuali misure di isolamento sociale la salute pubblica passerà necessariamente per la salute nei luoghi di lavoro.
* Avvocata penalista e fondatrice dello Studio Legale Lexa (studiolexa.it), consulente della Cgil di Milano, vice-presidente del Centro antiviolenza Casa delle Donne Maltrattate di Milano, da sempre impegnata nella difesa delle donne vittime di violenza, psicologica, fisica ed economica, che si consuma in ambito “domestico” e nella difesa di uomini e donne che subiscono violenza, in tutte le sue espressioni, nei luoghi di lavoro.
** Avvocato penalista e Of Counsel presso lo Studio Legale Lexa sui temi inerenti la salute e sicurezza nei luoghi di lavoro e il diritto alla tutela dei dati personali.