Francesco Greco e Giovanni Melillo chiedono al governo "urgenti correzioni di rotta". Il provvedimento varato lunedì sembra "accettare con rassegnazione" il pericolo di favorire la criminalità perché "emergendo successivamente la contiguità mafiosa dell’impresa finanziata, la revoca delle agevolazioni non farà venir meno la garanzia dello Stato". Intanto dal Viminale nuovo allarme sul rischio di condizionamento nell’assegnazione degli appalti della fase 2 e sulla tenuta sociale
Le mani delle organizzazioni mafiose sui prestiti alle imprese garantiti dallo Stato e sugli appalti che saranno banditi nella fase 2, quella della ripresa. E’ l’altra “epidemia” temuta dagli investigatori e dal ministero dell’Interno. Dopo gli allarmi dei giorni scorsi, oggi arrivano altri segnali di pericolo. Da un lato i procuratori capo di Milano e Napoli, Francesco Greco e Giovanni Melillo, chiedono “urgenti correzioni di rotta” sulle disposizioni del decreto liquidità varato dal governo per facilitare l’accesso al credito, dall’altro il Viminale in una circolare ai prefetti chiede “un’attenta e accurata valutazione di tutti i possibili indicatori di rischio di condizionamento dei processi decisionali pubblici funzionali all’assegnazione degli appalti”.
Greco e Melillo, in un intervento ospitato da Repubblica, lamentano che “alcuni aspetti del decreto credito, osservati nella prospettiva delle politiche di prevenzione criminale, appaiono assai preoccupanti“e “appare concreto il rischio che si determinino condizioni favorevoli ad un imponente trasferimento di risorse pubbliche dallo Stato alle imprese governate da interessi opachi o prettamente illeciti, finanziando di fatto anche evasori e truffatori seriali, quando non anche fiduciari delle organizzazioni criminali della peggior specie”. E chiedono al governo, in sede di conversione o con un intervento normativo da adottare ancora prima, “più alti e resistenti argini rispetto ai pericoli che si profilano”.
Ma quali aspetti preoccupano i pm, nel dettaglio? Per prima cosa il fatto che “nessun strumento tecnico-giuridico è previsto quale riparo dal rischio di finanziamento pubblico di imprese mafiose. Un rischio assai concreto, avendo ben chiare le reali dimensioni dell’espansione affaristica proprie delle componenti più raffinate dei circuiti di influenza mafiosa“. Eppure il provvedimento prefigura”la sostanziale rinuncia ai tradizionali controlli prefettizi” e quel rischio “sembra finanche accettato con rassegnazione, quando si prevede che, emergendo successivamente la contiguità mafiosa dell’impresa finanziata, la revoca delle agevolazioni già concesse (e ben difficilmente recuperabili) non farà venir meno la garanzia dello Stato“.
Poi ci sono “i silenzi”, quando “ad esempio, si rinuncia alla tracciabilità dell’uso del finanziamento, attraverso il ricorso obbligatorio a conti dedicati, in grado di facilitare l’individuazione di anomalie e rischi di riciclaggio, ma anche, nell’attuale fase di grave esposizione delle imprese al rischio di vessazioni usurarie e mafiose“. Tutto viene insomma demandato alla buona volontà di Sace e delle banche, a cui sabato anche Bankitalia ha raccomandato di tenere alta la guardia sui rischi di infiltrazione della criminalità nei finanziamenti garantiti dallo Stato all’atto della “verifica della clientela”, “sia in sede di concessione del finanziamento, sia nella fase di monitoraggio”.
Pur “comprendendo la necessità di enfatizzare più i profili di immediatezza del finanziamento piuttosto che quelli di rigorosità e trasparenza delle procedure – scrivono Melillo e Greco -, non convince la scelta di rinunciare anche a subordinare l’accesso al credito agevolato al preventivo assolvimento di un obbligo dell’imprenditore di attestare, innanzitutto, di non essere sottoposto a procedimenti per gravi delitti, innanzitutto di criminalità organizzata, corruzione, frode fiscale”. La prima richiesta dunque è questa: introdurre “un preciso dovere di una sorta di offerta reputazionale, agevolmente verificabile e gravemente sanzionabile in caso di falsità”, da estendere “anche alla inesistenza di liquidità personali alle quali sarebbe doveroso ricorrere per capitalizzare le imprese in crisi, anziché attingere a risorse pubbliche così sottratte ad imprese realmente bisognose? Sarebbe un modo per tenere lontani dall’accesso ai finanziamenti garantiti dallo Stato imprenditori che davvero non ne avrebbero bisogno”.
L’altro intervento indispensabile, per i procuratori capo, è “un obbligo di rendicontazione da parte dell’amministratore ed un analogo dovere di verifica degli organi di controllo interni”, per garantire “la necessaria tracciabilità degli impieghi e la loro finalizzazione a sostenere i livelli occupazionali e le spese correnti”. “Ne risulterebbe grandemente potenziata la capacità dello Stato di individuare tempestivamente abusi e condotte penalmente rilevanti, spesso sintomatiche delle dinamiche e degli interessi speculativi di strutture mafiose”.
Nella forma attuale, è la conclusione, “la lettura del decreto non offre risposte rassicuranti alla domanda fondamentale: è possibile fare in modo che la più poderosa delle manovre di immissione di liquidità nel mercato delle imprese non apra la strada a sistematici abusi e ruberie? In un Paese ove il crimine organizzato, la corruzione e l’evasione fiscale sono connotazioni strutturali di ampia parte del tessuto sociale ed economico e la macchina giudiziaria, già lenta e farraginosa, sarà sfiancata da una lunga fase di paralisi, risposte lacunose e tardive proietteranno la loro ombra non solo sulla finanza pubblica, ma anche sulla tenuta della coesione sociale e delle stesse istituzioni democratiche cui compete garantire l’effettività della promessa di eguaglianza e di progresso sociale inscritta nel patto costituzionale. Anche nel tempo buio del contagio da Covid-19″.
Intanto dalla ministra dell’Interno Luciana Lamorgese arriva la richiesta ai prefetti di effettuare a loro volta “un attento monitoraggio dell’andamento delle misure di sostegno al bisogno di liquidità delle famiglie e delle imprese”, perché l’emergenza, oltre a favorire le organizzazioni criminali, può aprire falle nella tenuta sociale. “Alle difficoltà delle imprese e del mondo del lavoro potrebbero accompagnarsi gravi tensioni a cui possono fare eco, da un lato, la recrudescenza di tipologie di delittuosità comune e il manifestarsi di focolai di espressione estremistica, dall’altro, il rischio che nelle pieghe dei nuovi bisogni si annidino perniciose opportunità per le organizzazioni criminali”. La circolare sottolinea “l’esigenza di rafforzare la tutela dell’economia legale dagli appetiti criminali, precludendo spazi di agibilità che potrebbero aprirsi in questo contesto difficile e in quello che ci attende”. Di qui la necessità di vigilare sulla salvaguardia dell’accesso al credito legale, per prevenire “l’odioso – e in questo scenario vieppiù pervasivo – fenomeno dell’usura”. Il “disagio” causato dalla difficoltà della ripresa economica e produttiva può “determinare l’insorgere di condizioni favorevoli per un’espansione degli interessi illeciti e criminali”, scrive Lamorgese. “Tale rischio riguarda innanzitutto quelle realtà caratterizzate da un minor sviluppo e da già elevati livelli di disoccupazione, in cui un possibile aggravamento della situazione economica rischia di comportare il ricorso a forme di “sostegno” da parte delle organizzazioni criminali, che in tal modo mirano anche ad accrescere il consenso nei loro confronti”.