Siamo abituati ad associare l’idea di “fosse comuni” ai lager nazisti, alla Cambogia di Pol Pot, a Srebrenica, alle tante, troppe grandi stragi compiute in tempo di guerra. Immagini terribili, dove davvero la tragica domanda di Primo Levi: se questo è un uomo, risuona come un rimbombo inaccettabile alle nostre orecchie. Vederle oggi, in tempo reale e per giunta provenienti da quella che viene definita “la più grande democrazia del pianeta”, ci deve fare riflettere sull’intero sistema di vita che abbiamo abbracciato.

L’antropologia ci insegna che ci sono pochi universali, condivisi da tutte le società umane. Uno di questi è che nessuna di esse lascia i propri morti così come sono. Il corpo, che ogni società ha modellato quando era in vita, rendendolo sempre più “culturale” (acconciando i capelli, dipingendolo, incidendolo, decorandolo), anche quando cessa di vivere diventa oggetto di cura. I nostri morti li seppelliamo, li bruciamo, li imbalsamiamo, spesso al cadavere vengono donati doni, gioielli, cibi per il suo viaggio nell’aldilà, ci sono cerimonie che accompagnano la sua dipartita. I modi sono tanti, ma l’idea è la stessa: non si abbandonano i morti. Si deve dare dignità anche all’ultimo atto della loro esistenza. Non per nulla una delle definizioni usate per distinguere gli umani dagli altri animali è proprio che l’uomo è l’unico animale che accudisce i morti.

Ecco perché quelle immagini ci colpiscono in modo così violento: a quelle persone, rinchiuse in casse da due soldi, senza nome, senza fiori, senza foto, senza funerale viene negata ogni dignità umana. Si sta dicendo loro: voi non siete stati e non siete nemmeno ora come “noi”.

La nazione più ricca del mondo, che non è in grado di assicurare ai suoi cittadini un’assistenza sanitaria degna di questo nome, dove la salute di un individuo dipende dalla sua ricchezza, che concepisce l’esistenza in chiave di competizione, dove il povero e l’emarginato sono tali perché “se lo sono meritati” e quindi è colpa loro se sono così ci pone davanti a un dilemma inevitabile: vogliamo un mondo più giusto o no? Vogliamo ridare dignità all’essere umano, rimettendolo al centro del nostro pensiero, oppure creare le nuove caste, fondate sull’avere?

“La culla del meglio e del peggio” così il compianto Leonard Cohen definiva l’America in una sua bellissima canzone. In questo momento storico, scossa dal dramma del virus e aggrovigliata nei deliri del suo presidente, sta dando il peggio di sé. Freddi Goldstein, dell’ufficio stampa del comune di New York, ha dichiarato alla Cnn: “Queste sono persone per le quali, in due settimane, non siamo stati in grado di rintracciare nessuno che dicesse ‘conosco quella persona, amo quella persona, mi farò carico della sepoltura’”.

Non è forse drammatico che ci siano così tante persone “sconosciute” ai più, che non abbiano un amico, una persona cara a cui fare riferimento? Nell’era delle comunicazioni, dei social, la socialità scompare sotto le macerie dell’individualismo. Che società è quella che non sa più (o peggio non vuole) occuparsi dell’altro? Del vicino?

Per fortuna, nonostante i molti nostri difetti (parlo come italiano), anche in una situazione come quella attuale abbiamo mantenuto il senso della solidarietà. Pur indebolita dalla mancanza di relazioni, non abbiamo perso l’idea di fare parte di un tutto, da cui difenderci collettivamente. Se questa terribile pandemia non ci insegna che solo uniti possiamo vincerla, allora tutto sarà stato inutile, anche quelle immagini di disumanizzazione, dove le bare vengono ammassate da un bulldozer. Se non ricordiamo che lì dentro ci sono degli esseri umani, che forse sono stati sfortunati in vita e continuano anche a esserlo nell’ultimo momento terreno.

Certo abbiamo visto i camion militari portare via i morti, abbiamo dovuto rinunciare ai funerali per motivi di salute pubblica, ma abbiamo anche cercato e cerchiamo di trattare con umanità chi è colpito dalla malattia e chi ci lascia. A volte basta un pensiero per dare un segno di empatia con l’altro.

Mi spiace caro Totò, ti sbagliavi, la morte non è una “livella”, neppure lei riesce a renderci uguali e neppure la malattia, sembra riuscirci a far pensare che apparteniamo a un’unica identica, fragile specie. Le immagini che sono arrivate da New York, la Grande Mela, la città faro della civiltà occidentale, ci fanno tornare alla mente i versi dello scrittore irlandese Oliver Goldsmith:

Guasto è il mondo, preda
Di mali che si susseguono
Dove la ricchezza si accumula
E gli uomini vanno in rovina.

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