La lezione personale e professionale più importante che ho appreso in questi ultimi mesi è che la maggior parte degli esseri umani è intrinsecamente impreparata, per non dire riluttante, a promuovere e gestire il cambiamento. La nuova società Covid-19 in cui stiamo vivendo ci sta rivelando quanto sia fattibile e immediato promuovere ed implementare il cambiamento in tempi brevi e con la massima efficienza, quando per anni ci siamo nascosti dietro scuse e giustificazioni per mantenere lo status quo, ovvio sintomo di pigrizia ed inefficienza.
Qui in Australia il virus è stato, per adesso, abbastanza clemente: 6.292 casi in totale, con “soli” 56 decessi. Sulla scorta delle esperienze di altri paesi, tra cui l’Italia, il governo ha prontamente scelto di adottare la linea dura, con chiusura di scuole, bar, ristoranti e palestre, semi-obbligo di lavorare da casa, limitazioni importanti negli spostamenti e stop a tutte le competizioni sportive. Un lockdown più dolce dell’Italia, ma comunque molto restrittivo. E ha iniettato una montagna di soldi nel sistema economico per garantire 3.000 dollari al mese (circa 1.700 euro al cambio attuale) per (inizialmente) 6 mesi al milione di persone che hanno perso il lavoro in conseguenza della chiusura di molte attività ed esercizi commerciali.
Anche l’Ong internazionale per cui lavoro è stata profondamente impattata da questa crisi, in quanto molti nostri sostenitori (aziende e donatori individuali) hanno cancellato il loro sostegno sotto forma di contribuzione ai nostri progetti. Inoltre, non ci è ovviamente permesso di organizzare eventi di raccolta fondi che richiedono la presenza fisica di partecipanti, che per la mia organizzazione rappresentano il 15% delle entrate. Tutto il settore è temporaneamente in crisi: il che ha paradossalmente permesso di accelerare il passo su riforme e cambiamenti immediati che erano stati in pipeline per molti anni, senza che nessuno premesse mai il tasto “Go!” per attivarle.
In tre settimane siamo riusciti a negoziare con il governo australiano una riduzione dal 20 al 10% della co-contribuzione richiesta alle Ong per accedere alla maggior parte dei fondi governativi. Era un dibattito che andava avanti da anni con alcune parziali concessioni, una tantum, da parte del governo e alcune fughe in avanti di organizzazioni che autonomamente decidevano di garantire meno co-contribuzione, a rischio di non accedere al finanziamento.
In sole tre settimane siamo riusciti a finalizzare un accordo che ha tutti i crismi per resistere e diventare norma anche dopo la fine dell’era Covid-19. Cancellando con un colpo di spugna 5 anni di riunioni, dibattiti, documenti e processi burocratici che sembrano appartenere alla preistoria.
Sulla stessa linea, tutto il settore (non solo in Australia) da anni esercita pressione sui governi richiedendo più flessibilità nell’utilizzo dei fondi per progetti. La logica che sta alla base di tale richiesta è molto semplice: spesso i tempi di approvazione di un progetto da parte del donatore sono lunghi, se non lunghissimi (da 6 mesi a 2 anni), e pertanto quando il progetto inizia le condizioni rispetto ai tempi in cui il progetto era stato ideate risultano assai differenti. Tutte le organizzazioni fanno salti mortali per spendere i soldi secondo un budget spesso scritto due anni prima, e chi lavora in questo settore conosce le interminabili procedure di revisione budgetaria che tengono occupati molti dei funzionari del settore.
Il governo ha finalmente riconosciuto che le organizzazioni sul campo hanno la responsabilità ed esperienza necessarie per decidere come e dove meglio spendere i fondi (ovviamente su delle linee guida concordate) in base a contesti e situazioni che mutano molto più rapidamente della burocrazia, e questa modifica ci permetterà di diventare più veloci, efficienti e capaci di adattare le nostre strategie di intervento a quanto richiesto al momento.
Un altro tema radicalmente cambiato grazie al Covid-19 è come le Ong possono solleticare l’interesse dei donatori, soprattutto privati. La mia organizzazione si chiama WaterAid e lavora sul tema dell’accesso alle risorse idriche per acqua potabile, toilette e igiene. Da sempre, nella nostra interazione coi donatori privati, abbiamo puntato su ciò che era di più immediata comprensione per il pubblico: infrastruttura per garantire acqua potabile nelle case e nelle comunità.
Lavorando nell’ambito degli Obiettivi del Millennio prima (2000-2015) e degli Obiettivi di sviluppo sostenibile oggi, sappiamo come i progressi sul tema di accesso all’acqua potabile siano stati, negli ultimi 20 anni, molto più significativi rispetto a quelli nell’ambito della promozione dell’igiene. Per un motivo semplicissimo: finanziare un progetto per un pozzo (con risultato visibile e spazio per mettere una targa ricordo con il nome del donatore) è sempre stato molto più “sexy” che finanziare una campagna per sensibilizzare i bambini delle scuole a lavarsi le mani.
Oggi questa distinzione sembra lontana anni luce e la priorità è focalizzarsi sull’igiene come primario meccanismo di prevenzione del virus. In un mese una organizzazione internazionale come WaterAid, che lavora in più di 30 paesi, è riuscita a rifocalizzare tutti i propri progetti sul tema dell’igiene, in modo da sostenere i programmi di risposta al Covid-19 promossi da tutti i governi con cui collaboriamo. Sforzo che in tanti anni di strategie e ri-programmazione non eravamo mai riusciti ad intraprendere con sufficiente convinzione e coraggio, per paura che i donatori ci abbandonassero.
Passiamo alla comunità filantropica. In un paese relativamente piccolo (non in termini di estensione geografica, ma di popolazione) come l’Australia, vi sono migliaia di istituzioni filantropiche, da Fondazioni con potere economico sostanzioso a piccoli trust familiari, che finanziano le Ong internazionali. Da anni chiedevamo al settore di attivare dei sistemi di pool funding, per cui le varie istituzioni conglomerassero risorse economiche in un unico “contenitore” per finanziare progetti di sviluppo.
La nostra richiesta andava anche oltre: si chiedeva al settore filantropico di avere un unico punto di accesso per poter richiedere finanziamenti, una piattaforma che riunisse tutti i maggiori player a cui le Ong potessero sottoporre i loro progetti per ricevere finanziamenti. I filantropi avrebbero potuto consultare la piattaforma e scegliere il progetto che meglio rispondeva alle loro scelte di investimento. Questo avrebbe provocato un enorme risparmio di tempi e costi di transazione tra tutte le Ong e i donatori, permettendo agli attori in gioco di concentrarsi sulla qualità dei progetti e la loro realizzazione invece di spendere gran parte del proprio tempo a preparare presentazioni e pitches per una vasta platea di potenziali finanziatori.
Ebbene, settimana scorsa le due maggiori organizzazioni rappresentative del settore hanno lanciato un sito che risponde esattamente ad una richiesta su cui da anni insistevamo. Oggi, con un solo click, ogni Ong può condividere il proprio progetto con la vasta platea di filantropi australiani, accedendo ad un network di potenziali donatori che raggruppa le maggiori istituzioni filantropiche del paese. E, di nuovo, sono convinto che questa diventerà la pratica standard adottata nel futuro, visto che tutti gli attori coinvolti sperimenteranno i vantaggi di tale sistema unificato rispetto alla frammentazione pre Covid-19.
Ci sono infinite opportunità in questa nuova società. E lo stress e la crisi ci hanno obbligato a pensare in maniera laterale. Abbiamo provato su noi stessi come si possa cambiare modo di lavorare in poche settimane. Spero solo che ci ricorderemo di questa transizione negli anni a venire, quando si tornerà alla normalità e alcuni cercheranno di restaurare i vecchi riti e processi per impedire innovazione e cambiamento.
Il cambiamento è l’unica costante, diceva Eraclito. Magari non tutto è perfetto, ma non lo sarà mai, nemmeno dopo dieci anni di pianificazione del cambiamento. Piuttosto che niente, meglio piuttosto. E cerchiamo di avere tutti più coraggio per schiacciare il benedetto tasto verde: “Go!”.