Forse in questo caso non serve riassumere i fatti. La querelle Mentana-Conte, chiamiamola così per capirci, è ben nota a tutti nelle sue diverse tappe. Sono invece necessarie, da parte mia, alcune premesse.

Come sanno benissimo i miei venticinque lettori, sono da tempo un estimatore del giornalista che ha realizzato, diretto e condotto il miglior telegiornale presente nel panorama piatto dell’informazione televisiva quotidiana in Italia. Il suo modo molto personale, selettivo e interpretativo di fare il tg è l’unico in grado di dare un senso a questo genere televisivo glorioso ma sempre più impacciato nel nuovo contesto mediatico (ora ci sarebbe anche quello di Gomez e prima o poi ne parleremo, superando le remore di un possibile conflitto di interessi).

Mi sembrano, dunque, assurde le dichiarazioni, apparse a profusione sui social nelle ultime ore, di spettatori che giurano che non seguiranno più il TgLa7. Rinunciare alla migliore, se non unica, occasione quotidiana di buona informazione televisiva per punire che l’ha realizzata è un po’ masochistico. Come si diceva un tempo, con metafora non proprio elegante, come mutilarsi per fare dispetto…

O se vogliamo cercare similitudini su un altro piano più vicino agli interessi di Mentana, anche ammettendo il suo errore, sarebbe come se un tifoso deluso chiedesse di vendere Messi perché una volta ha sbagliato un gol. Parlo di errore perché l’altra accusa circolata ampiamente, quella dell’intenzionalità, della scelta fatta con uno scopo preciso, quella che descrive un Mentana servo, voltagabbana, succube dei padroni, pronto a tradire per vantaggi personali, fa decisamente ridere.

Ma ve lo vedete un giornalista che ha condotto il Tg2 quando era quasi un ragazzo, che ha inventato e diretto il Tg5 e l’ha dovuto lasciare, che ha messo in piedi l’informazione de La7 e le famose maratone, che improvvisamente si mette a fare calcoli opportunistici, a compiacere qualche politico potente, neanche fosse un praticante in spasmodica attesa del primo contratto? Suvvia! Siamo seri.

Detto questo resta aperto un problema di cui si è parlato troppo poco. Poiché il dibattito, meglio la polemica, si è giocata tutta a livello di dettagli, di sfumature (era opportuno o non opportuno citare gli avversari politici?), di ricostruzioni storiche complicate (chi ha firmato il Mes?), di questioni che possono sembrare di lana caprina, allora occorre mettersi su questo piano, anche a costo di spaccare – come si dice – il capello in quattro. Insomma, a differenza del calciatore cantato da De Gregori, è proprio da certi particolari che si giudica questa faccenda. Anzi da un particolare: quello dell’ambito televisivo in cui si è svolta la conferenza stampa di Conte.

Anche qui una premessa: in Italia non esiste una televisione di Stato, come amano dire alcuni pressapochisti. L’Italia non è l’Unione Sovietica (per fortuna), ma non è (per fortuna) neanche gli Stati Uniti e quindi ha un servizio pubblico televisivo, come tutti i paesi europei e con tutti i problemi che nascono nella gestione di un servizio pubblico in un sistema misto di una società moderna. Il Presidente del Consiglio ha la facoltà, come il Presidente della Repubblica, di mandare in onda a reti unificate un suo messaggio che diventa un’occasione istituzionale. Ma questo, sabato scorso, non è avvenuto, come giustamente ha fatto notare lunedì Palazzo Chigi.

Le varie reti potevano trasmettere il discorso di Conte o non farlo. Rai 1 avrebbe potuto mettere in onda i suoi amatissimi Soliti ignoti, Rai 2 il suo NCIS e La 7 una vecchia puntata del Commissario Cordier. Nessuno avrebbe avuto nulla da eccepire. Per cui, per favore, lasciamo stare Chavez. Se le reti televisive si sono collegate con la Presidenza del Consiglio, lo hanno fatto per una loro scelta giornalistica, convinte del rilievo informativo di quella conferenza stampa, non per un obbligo di legge.

La differenza non è di lana caprina, perché a questo punto l’ambito televisivo (ripeto: televisivo) in cui è avvenuto il “fattaccio” non è affatto istituzionale. Le reti potevano aprire il collegamento o non farlo, farlo in parte, staccando nel momento in cui Conte aveva esaurito la parte dedicata ai provvedimenti di emergenza. Si sarebbe certo discusso della bontà della loro scelta sul piano informativo, ma non su quello istituzionale. Si sarebbe potuto organizzare la diretta con il commento da studio: conduttore e giornalisti che ascoltano le parole del primo ministro, analizzano il suo discorso, lo criticano, come Mentana ha fatto mille volte nelle sue maratone, che si trattasse di Teresa May, di Puigdemont o, come è accaduto ancora ieri sera, di Macron.

Quello che non si può fare – e qui non sono d’accordo con Mentana – è accusare Conte di aver utilizzato lo spazio di una sua prerogativa istituzionale per uno scontro politico. Semplicemente perché quella prerogativa non l’ha esercitata.

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