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di Andrea Giannotti

“Le democrazie non vengono mai uccise”, diceva Indro Montanelli, “semplicemente muoiono e poi si accusa chi le ha seppellite”. Niente di più vero. Una democrazia funzionante sarà sempre in grado di agire da scudo ai colpi dittatoriali-oligarchici provenienti sia dall’interno che dall’esterno. Dopo tutto, Matteo Salvini avrebbe ottenuto i tanto agognati pieni poteri tramite elezioni: davvero fantasticavamo una marcia verde su Roma?

Suvvia, non accusiamo più del dovuto Salvini e Meloni di “dittatureggiare”, poiché riconosceremmo in loro più forza di quella davvero esercitata da tutti quei dittatori che si sono resi nefasti protagonisti nella storia del mondo. Il consenso che i due si sono coltivati lo hanno ottenuto tramite ciò che di più democratico esista: la libertà di parola.

Ma oggi la libertà di parola è anche libertà di ingannare. Perciò, se vogliamo lamentarci di certe percentuali, dobbiamo esaminare le falle della nostra logica democratica, che non si deve risolvere solo ed esclusivamente nell’universale diritto di voto, ma dovrebbe anche garantire la circolazione di notizie veritiere. E la verità, la conoscenza e il diritto al loro perseguimento sono la linfa vitale di un paese veramente democratico, il krátos del cui popolo consisterebbe proprio nell’essere correttamente e responsabilmente informato. Pura utopia.

Ciò che, invece, è reale (e disarmante) è il dover costantemente dubitare (dote oramai poco comune) di ciò che si legge: sarà vero? Quali sono le fonti e perché non vengono citate? Perché dall’altra parte viene detto il contrario? Saranno immagini ritoccate? Saranno dati parziali o totali? Si instaura così il circolo non democratico, ma vizioso e infantile delle smentite. Certo, la rete (col “giornalismo diffuso”) rappresenta una valida speranza contro il giornalismo in quanto “fabbrica del consenso”. Ma la speranza è un’arma a doppio taglio: se la rete ha democraticamente garantito il diritto di espressione universale, ha anche creato un labirinto inestricabile di opinioni e presunte verità, rendendo l’informazione pubblica ma più complicata.

In questo oceano in tempesta, la fabbrica del consenso si è spostata dalla carta stampata ai profili social dei politici, i quali – all’opposizione e forti del linguaggio iper-semplificato – possono scatenare con un “Mes approvato!” una torma ditirambica accecata fanaticamente da due parole. La maggioranza deve avere un’opposizione che smascheri le falsità, non che mascheri le verità.

Ma se la legittima “opinione” pretende propagandisticamente di diventare “verità” a prescindere da fonti e dati di fatto, allora la democrazia fallisce. Difatti, a giudicare dall’apice retorico-concettuale raggiunto da politici e giornali italiani nella crisi odierna, possiamo parlare di “oclocrazia”, lo sfrenato e disordinato potere della massa. Tocchiamo quotidianamente con mano i dati Ocse sulle “doti” delle menti italiane; vediamo l’istituzione di una task force contro le fake news online; cade anche la retorica (democratica?) dell’uno vale uno, e prevale quella del Marchese del Grillo (“io so’ io”); leggiamo titoli dozzinali, misinterpretazioni, inchieste costruite sul nulla; assistiamo alla natura virale e perniciosa delle “chiacchiere da bar” che arrivano fino ai piani alti della politica o, ancor più tragicamente, calano proprio da quegli stessi piani alti.

È così che si finisce nel paradosso, criticando un Presidente del Consiglio costretto a tornare all’asilo per fare nomi e cognomi di chi ha lanciato una matita o detto una bugia. Si taccia di “modalità da regime” un diritto di replica (anzi, dovere di smentita) e si premiano i democratici assoli accusatori sulle dirette social o in quei talk show dove il contraddittorio non lo fa neppure il giornalista-conduttore.

E intanto? Intanto la democrazia, fattasi stucchevole, muore, perché il popolo – trenodico dittatore di se stesso – si pasce di ciò di cui si lamenta e si lamenta di ciò di cui si pasce, fino ad assopirsi nell’indifferenza.

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