È un presidente in evidente difficoltà quello che negli ultimi giorni affronta le conferenze stampa giornaliere sul Covid-19. Donald Trump si sente attaccato, messo sotto accusa, e reagisce come sua abitudine. Contrattaccando, identificando i nemici – in questo caso i governatori e, ovviamente, i media -, cercando di cambiare l’oggetto del contendere. Il taglio dei fondi all’Oms ha probabilmente questo significato: deviare su altri il biasimo per la gestione dell’emergenza coronavirus. La strategia non pare, al momento, funzionare. Secondo l’ultimo sondaggio “Morning Consult”, effettuato tra il 10 e il 12 aprile, soltanto il 45 per cento degli americani approva l’operato del presidente. Era il 53 per cento a metà marzo.
Il momento forse più significativo della condotta ondivaga e contraddittoria di Trump è venuto dallo scontro con i governatori. Lunedì, in conferenza stampa, il presidente ha spiegato che ci sono “numerose clausole” nella Costituzione che gli consentono di bypassare le scelte dei governatori – nel caso questi decidano di mantenere le misure di chiusura emergenziale nei loro Stati. A precisa domanda, Trump non ha saputo citare una sola di queste “numerose clausole”. È però riuscito a dire che “quando uno è il presidente degli Stati Uniti, la sua autorità è assoluta. Ed è giusto che sia così. È assoluta”. Si tratta di un’interpretazione delle sue prerogative che ovviamente contraddice lo spirito della Dichiarazione di Indipendenza e della Costituzione – fondati al contrario sul rifiuto del potere assoluto e sulla separazione dei poteri. E si tratta di una dichiarazione che, per quanto riguarda i poteri dei governatori, non ha alcuna base legale. Il Decimo Emendamento fissa chiaramente un principio: che “i poteri non delegati agli Stati Uniti dalla Costituzione”, quindi non delegati al governo federale, spettano ai singoli Stati. Tra questi ci sono i cosiddetti “police powers”, la giurisdizione sulle questioni legate alla sicurezza generale, alla salute, al bene pubblico.
Il Covid-19 è quindi, senza alcun dubbio, questione di competenza dei singoli Stati. È spettato ai governatori decidere se e quando imporre le misure emergenziali. Spetterà ai governatori decidere se e quando tornare alla normalità. Lo stesso Trump se ne deve essere reso conto, perché nelle ultime ore ha ammorbidito i toni. “Tra breve parlerò con i 50 governatori” ha detto, aggiungendo che le riaperture avverranno “nei tempi e nei modi più appropriati per i singoli Stati”. Dopo aver assicurato di non voler esercitare alcun tipo di pressione, si è però lasciato scappare: “Loro – i governatori – sanno comunque che devono riaprire”. Il fatto è che Trump scalpita. I numeri di questi ultimi giorni sono quanto di peggio un presidente in un anno elettorale possa immaginare: quasi 17 milioni di nuovi disoccupati in tre settimane; il prodotto interno lordo che nel 2020 (stime del Fondo Monetario Internazionale) crollerà negli Stati Uniti del 5,9 per cento. È vero che nel 2021 dovrebbe esserci una ripresa del 4,7 per cento. Ma l’orizzonte di Trump si ferma al 3 novembre prossimo, quando ci saranno le elezioni presidenziali e quando gli Stati Uniti rischiano di trovarsi ancora nel mezzo di una crisi economica distruttiva.
È questa scadenza a giustificare le ultime uscite di Trump. Il presidente ha bisogno di riaprire tutto, al più presto, per bloccare la caduta libera e arrivare a novembre con segnali consistenti di ripresa. “Gli Stati Uniti non sono stati creati per restare chiusi” ha detto più volte, e questo bisogno di “riaprire tutto” è ciò cui nelle prossime settimane guiderà la sua azione. Probabile che, nel processo, entri in conflitto con i suoi esperti sanitari, in particolare con Tony Fauci, l’immunologo che guida il “National Institute of Allergy and Infectious Diseases”. Il retweet di Trump, alcuni giorni fa, che diceva #FireFauci, è stato un avvertimento che il presidente lancia al suo principale consigliere sanitario. Sinora Trump, seppure recalcitrante, ha seguito le indicazioni di Fauci: chiusure, distanziamento sociale, quali medicinali adottare e quali no. Ma Trump non è disposto a concedere di più. Ha sopportato l’autonomia di Fauci, ha tollerato la popolarità che questo medico ha conquistato presso l’opinione pubblica americana. Le cose sono però destinate a cambiare. Insistere sulla necessità di protrarre le misure emergenziali potrebbe mettere Fauci in rotta di collisione definitiva con Trump.
Più difficile, per il presidente, sarà gestire i governatori, che sono l’altro grande blocco che può mettere in discussione i suoi piani per la riapertura dell’economia Usa e per la rielezione a novembre. I governatori, democratici ma anche repubblicani, sono stati una costante spina nel fianco dell’amministrazione. Hanno evidenziato i ritardi del governo federale nell’affrontare l’emergenza coronavirus; le falle nella gestione sanitaria e organizzativa della crisi; la drammatica mancanza di respiratori, mascherine, tamponi. Ora sempre i governatori si mettono di mezzo ai piani della Casa Bianca per la fine del lockdown. Proprio mentre Trump parlava dei “poteri assoluti” di un presidente Usa, i governatori delle coste est e ovest si mettevano d’accordo per una risposta regionale alle crisi. Da una parte i governatori di California, Oregon, Washington, dall’altra quelli di New York, Delaware, Rhode Island, Massachusetts, New Jersey si accordavano su quando attenuare le misure emergenziali e riprendere lentamente la normalità. I tempi, ovviamente, potrebbero non coincidere con quelli cui pensa Trump, facendo esplodere nuove polemiche e conflittualità.
“Il presidente ha detto di avere poteri assoluti. Mi spiace, non penso sia un giudizio accurato”, ha detto nella conferenza stampa di ieri Andrew Cuomo, il governatore dello Stato di New York. Cuomo, in queste settimane, è emerso come una sorta di incarnazione su scala nazionale delle difficoltà, pene, fatiche che tutti i governatori Usa hanno dovuto sopportare. Soprattutto, Cuomo è apparso come il contraltare del presidente. Si è battuto per costruire – letto dopo letto, respiratore dopo respiratore – un sistema capace di reggere l’urto dell’emergenza nel suo Stato. Ha dato voce alla sofferenza e alle paure dei suoi concittadini (il fratello di Cuomo, Chris, anchorman per CNN, è rimasto contagiato). Le sue conferenze stampa del mattino sono diventate degli appuntamenti abituali per molti, dentro e fuori lo Stato di New York. Il governatore è apparso aggressivo nelle sue richieste al governo federale ma mai polemico; conscio della gravità della crisi, partecipe del dolore per la morte di migliaia di persone ma anche capace di indicare l’arrivo di giorni migliori. Cuomo ha finito per rappresentare l’altra faccia della risposta all’emergenza rispetto a Trump. Probabile che, nelle prossime settimane, sia proprio lui a guidare resistenze e strategie dei governatori Usa di fronte alle pressioni di Trump.