Mentre è entrata nel vivo la battaglia per le nomine di Eni e delle altre partecipate, a pochi giorni dalla presentazione delle liste dei candidati (prevista per il 20 aprile) Greenpeace Italia ha analizzato nel dettaglio il piano strategico di lungo termine al 2050 dell’azienda, accanto a quello d’azione 2020-2023, arrivando a conclusioni molto critiche: “Gli obiettivi che la multinazionale si è posta sono inadeguati rispetto all’applicazione dell’Accordo di Parigi e alle raccomandazioni dell’Ipcc, il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico – spiega a ilfattoquotidiano.it Luca Iacoboni, responsabile campagna Energia e Clima di Greenpeace Italia – E lo sono su vari fronti, dalla produzione di gas fossile alle rinnovabili”.

L’OCCASIONE DI UNA SVOLTA – Secondo le ultime indiscrezioni sulle nomine, il Governo pare orientato a confermare l’amministratore delegato in carica dal 2014 Claudio Descalzi, più caro al Pd che non al Movimento 5 Stelle e Matteo Renzi. Alla presidenza circolano diversi nomi, tra cui quello di Franco Bernabè, che fu ad di Eni negli anni del dopo Tangentopoli, ma anche quello dell’ex capo della Polizia, Gianni De Gennaro (ora alla presidenza di Leonardo), che si troverebbe alla guida della multinazionale coinvolta in diverse inchieste giudiziarie.

Trattative in corso anche per il nuovo consiglio, al quale la stessa Eni fa riferimento nel piano 2020-2023: “Appare opportuno che sia formato da professionalità in possesso di competenze ed esperienze adeguate per una piena condivisione del percorso di decarbonizzazione“. “Non ci auguriamo nomi – commenta Iacoboni -, ma che si cambi rotta e che alcuni temi vengano trattati in modo più concreto di quanto fatto finora”. Secondo Greenpeace il tema della transizione energetica deve essere centrale nel nuovo management. “Questo non significa arrivare nel lungo periodo a produrre molto più gas e meno petrolio e carbone – commenta Iacoboni -, ma raggiungere nel breve periodo il 100% di rinnovabile”.

Ma cosa prevede il piano strategico di Eni? C’è scritto nero su bianco: la crescita della produzione upstream a un tasso annuo del 3,5% fino al 2025, dunque per i prossimi cinque anni. Poi un “successivo flessibile declino principalmente nella componente olio”. Resta ferma, in pratica, l’indicazione di un mix produttivo relativo all’upstream con una componente gas del 60% al 2030 e pari a circa l’85% al 2050.

IL GAS È (ANCORA) IL FUTURO – “Uno scenario così incentrato sui combustibili fossili, soprattutto sul gas, a fronte dell’emergenza climatica in corso – spiega Iacoboni – è incompatibile con un tentativo serio di decarbonizzazione finalizzato a rispettare gli obiettivi dell’Accordo di Parigi e le indicazioni della scienza”. E l’Ipcc spiega che, emettendo CO2 ai ritmi odierni, ci si attende che la temperatura del pianeta superi il grado e mezzo di aumento, con conseguenze devastanti, già tra il 2030 e il 2052. È necessario mettere in campo più azioni possibili.

“Il piano Eni a lungo termine – aggiunge Iacoboni – prevede invece che dal punto di vista della produzione gran parte del risultato venga raggiunto diminuendo quella di petrolio e aumentando quella di gas. Non è una buon notizia, visto che il gas alimenta la crisi climatica, anche se meno di carbone e petrolio”. Ancor di più se si pensa alle rinnovabili. Il piano di Eni al 2050 prevede “una forte crescita a oltre 55 GW”. I dati sugli investimenti per il 2020-2023, però, sono chiari: alle rinnovabili spettano 2,6 miliardi di euro su un totale complessivo di 32 miliardi di euro. Sono poco più di un decimo di quanto l’azienda ha scelto di investire in attività di esplorazione ed estrazione di petrolio e gas nei prossimi quattro anni (24 miliardi di euro).

IL NODO DELLE COMPENSAZIONI – Eni fornisce una risposta parlando di “sostenibilità delle produzioni gas” e mettendo in cantiere progetti di conservazione delle foreste e di cattura e stoccaggio della CO2 per un totale di oltre 40 milioni di tonnellate l’anno al 2050. “A parte la criticità dell’approccio – sottolinea Greenpeace – perché con una mano si compensano le emissioni, con l’altra si estraggono e bruciano combustibili fossili responsabili dei cambiamenti climatici, il problema principale è che vengono proposte false soluzioni, come le attività di cattura e stoccaggio della CO2”.

Nel 2016 il Bulletin of Atomic Scientists ha pubblicato una stima secondo cui per contenere il riscaldamento globale a due gradi bisognerebbe aprire un impianto e mezzo di cattura del carbonio al giorno, tutti i giorni, per i prossimi 70 anni. “Si tratta di un’attività ancora troppo poco sviluppata, poco diffusa e poco affidabile per riservarle un ruolo di primo piano nella compensazione delle emissioni, come fa Eni che, comunque, neppure prevede gli investimenti necessari”, commenta Iacoboni.

Eppure proprio Descalzi, a febbraio scorso, ha parlato di “un’opportunità unica nell’area di Ravenna, grazie alla combinazione tra giacimenti offshore esauriti con infrastrutture ancora operative, insieme a centrali elettriche sulla terraferma e altri impianti industriali nelle vicinanze”. Per l’ad “le possibilità di stoccaggio sono enormi, tra 300 e 500 milioni di tonnellate”. Di fatto, pare che l’iter autorizzativo non si concluderà prima del 2025.

Per quanto riguarda i progetti di conservazione delle foreste, da tempo si chiedono maggiori informazioni. Un tema affrontato anche da Fondazione Finanza Etica (Ffe) che già un anno fa contestava i risultati che si sarebbero potuti ottenere persino da una ‘riforestazione’. Nel piano si parla di “conservazione”: “È necessario fare chiarezza – sottolinea Iacoboni – Una cosa è piantare alberi (e non tutti assorbono ugualmente CO2) un’altra è creare piantagioni, magari monocultura con olio di palma”. Ad oggi c’è un obiettivo al 2050, ma non ci sono dettagli.

COSA HA CAMBIATO IL CORONAVIRUS – Coronavirus e crollo dei prezzi del petrolio hanno costretto anche Eni, come tante aziende, a fare una revisione degli obiettivi (nel caso della compagnia del Piano 2020-2021) riducendo gli investimenti per il prossimo biennio. Nel 2020 il cane a sei zampe ridurrà la spesa in conto capitale (capex) di circa 2 miliardi di euro, pari al 25% del totale previsto a budget e le spese operative (opex) di circa 400 milioni. Mentre per il 2021 è prevista una riduzione dei capex di circa 2,5-3 miliardi. I progetti interessati dai tagli riguardano principalmente le attività upstream, in particolare quelle relative a ottimizzazione della produzione e a progetti di sviluppo il cui avvio era previsto a breve. Eni ha già assicurato che “l’attività potrà essere riavviata velocemente al ripresentarsi delle condizioni ottimali”. Per Greenpeace “non si può pensare di valutare l’impatto ambientale di un’azienda basandosi su quanto sta avvenendo durante la crisi, anche perché i tagli non rappresentano un cambio di passo, mentre è interessante vedere come la pandemia abbia messo in luce l’instabilità dei mercati nel settore dell’oil&gas”.

SE IL GREENWASHING NON LAVA VIA L’INQUINAMENTO – Nel 2018, inoltre, Eni ha dichiarato di emettere 34 milioni di tonnellate di gas a effetto serra “ma la produzione di CO2 derivante dalla combustione di petrolio e gas estratti nel 2018 è stata sei volte più elevata”. Tuttora Eni sta investendo in attività di esplorazione e ricerca di nuovi giacimenti di gas e petrolio, aumentando le proprie riserve. “Eni, dunque, estrae combustibili fossili che poi verranno venduti e bruciati in gran parte anche da altri operatori – spiega Greenpeace -, ma la responsabilità di avere un business basato principalmente su fonti che contribuiscono ulteriormente al riscaldamento globale resta in capo all’azienda. Non si può pensare di estrarre combustibile, facendolo poi bruciare da altri e uscirne come azienda ‘green’”. A riguardo, Greenpeace ricorda la multa da 5 milioni di euro arrivata a Eni a gennaio 2020 da parte dell’Antitrust per aver attribuito al carburante Eni Diesel+ “vanti ambientali che non sono risultati fondati”, con la diffusione di messaggi pubblicitari ingannevoli. Perché nella campagna promozionale si parlava di “Green Diesel”, aggiungendo che “aiuta a proteggere l’ambiente” nonostante “il prodotto sia un gasolio per autotrazione – ha spiegato l’Antitrust – che per sua natura è altamente inquinante e non può essere considerato green”.

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