Lo scrittore, 70 anni, era stato ricoverato in ospedale il 27 febbraio ed era risultato positivo al tampone per individuare il Coronavirus il 1 marzo
“Il vecchio l’accarezzò, ignorando il dolore del piede ferito, e pianse di vergogna, sentendosi indegno, umiliato, in nessun caso vincitore di quella battaglia”. Lo scrittore Luis Sepulveda è morto. Quel maledetto bastardo del Coronavirus se l’è portato via dopo un lungo mese di agonia. Aveva 71 anni, Sepulveda, ed era nato ad Ovalle, nell’ottobre del 1949, in Cile. Figlio di quel Sudamerica che tra gli anni cinquanta e settanta fu un ribollire di utopie socialiste e sogni talvolta realizzati per poco di società egualitarie. Autore sopraffino, capace di un realismo magico dove convivevano in simbiosi George Amado e Ernest Hemingway, Emilio Salgari ed Herman Melville. Il vecchio che leggeva romanzi d’amore, il suo primo libro, clamoroso successo di pubblico, soprattutto in Italia e nell’Europa mediterranea, è del 1989. Ed è di quei fulmini letterari a ciel sereno che ti lasciano appiccicato con gli occhi alla pagina fino a che il romanzo non finisce. Tra quelle 130 pagine (in Italia edite da Guanda), come dicono tante nonnine, “scritte in grande”, c’è la ricetta perfetta del romanzo evocativo di un’atmosfera e di un’epoca, come di un vibrante anelito supremo ed etico alla convivenza con l’altro da sé.
Sepulveda è già tutto spiegato tra queste pagine che grondano umidità equatoriale e fruscio di foglie della foresta. C’è uno sguardo intenso, essenziale, purissimo verso l’orgoglio e la sofferenza di un continente – il Sudamerica -, verso uno spazio incontaminato e specifico – l’Amazzonia. C’è l’intreccio formale sottile sul confine labilissimo tra umanità e animalità che poi verrà declinato in altre opere meno potenti ma altrettanto importanti. La dentiera avvolta in un fazzoletto tenuto in tasca, Antonio Jose Bolivar Proano è l’unico che può cacciare la femmina di tigrillo che sta mettendo in subbuglio il paesino di El Idilio al confine con l’intricata foresta. Lui ha vissuto per anni con gli indios shuar. E tra loro ha goduto dell’amore per una donna e il disonore della comunità per un errore personale. Antonio racchiude in sé il segreto della natura e il significato della magia della creature che la compongono, ma è anche conscio dell’immensa piccineria dei gringos di fronte al creato.
Debitore di una scabra e allo stesso tempo altisonante descrittività alla Hemingway e Melville, Sepulveda compie il suo miracolo letterario, mostrando la profonda e vibrante lotta dell’uomo con se stesso. L’animale non più nemico, ma simbolico “senso di colpa collettivo di fronte alla natura ferita”. Qualcosa che rimarrà tremendamente attuale nei secoli dei secoli. Il vecchio che leggeva romanzi d’amore rimarrà nelle classifiche dei classici di tutti i tempi. Poi certo Sepulveda tornerà in grande spolvero con La frontiera scomparsa (1994) – ancora un clamoroso simbolismo attorno ad una “frontiera” della felicità scomparsa per l’America Latina – e nel 1995 con Patagonia Express – una moleskine zeppa di intersezioni di viaggio forse più note di quelle di Bruce Chatwin.
Anche se è del 1996 che esce un altro must dello scrittore cileno: Storia di una gabbianella e di in gatto che le insegnò a volare. Una fiaba “animale” dal valore universale senza quella spocchia da forzata doppia lettura umana (ovviamente presente) che molti fallaci epigoni del nostro hanno riprodotto frusti e patetici nei decenni a venire. La morente gabbiana Keghan e quel suo ovetto deposto tra le grinfie del gatto Zorba. La promessa di crescerlo tra mille ritrosie speciste, la dimensione della fiaba che non è mai leggera, la solidarietà e le generosità fatte a parabola del creato, l’uomo inquinatore terribilmente presente, Sepulveda raggiunge forse qui il suo apice comunicativo e simbolico, la sua maggiore densità stilistica e il suo più rarefatto afflato politico.
Lui che era sopravvissuto alle carceri e alle torture della dittatura di Pinochet. Che aveva resistito agli orrori del nazismo militare supportato dalla Cia che uccise Salvator Allende. L’11 settembre del 1973 Sepulveda era parte attiva dei GAP, la guardia personale del presidente cileno, e mentre i golpisti bombardavano la Moneda tentò di tornarvi per difendere Allende, dopo essere stato messo a guardia di una centrale idroelettrica. Arrestato, sottoposto alle camere di tortura, rinchiuso in una cella dove non poteva nemmeno stare in piedi, venne condannato all’ergastolo, ma il suo caso venne difeso da Amnesty International. La condanna commutata in otto anni di esilio, finito dopo due e mezzo con asilo politico offerto dalla Svezia. Fu sul finire degli anni settanta e l’inizio degli ottanta che Sepulveda intraprese la carriera da regista teatrale in Europa. Spazio scenico dove volle rappresentare la sua arte intriso di giustizia sociale e anelito egualitario. Ma è con le parole, con la forma letteraria del romanzo che troverà la sua incredibile voce sul finire degli anni ottanta. “Il nemico esiste solo come invenzione umana” raccontò lo scrittore in una qualche intervista di cui non ricordiamo più la fonte. E se questo tipo di letteratura impegnata non andrà forse più di moda oggi, se tutto questo armamentario di lotta e di affermazione della parola prima del gesto finiranno per essere dimenticate, l’addio a Sepulveda è dentro a quelle immagini dolci della memoria di Antonio Jose Bolivar, in quello scrigno di sopravvivenza di fronte al male. “Senza smettere di maledire il gringo primo artefice della tragedia, il sindaco, i cercatori d’oro, tutti coloro che corrompevano la verginità della sua Amazzonia, tagliò con un colpo di machete un ramo robusto, e appoggiandovisi si avviò verso El Idilio, verso la sua capanna, verso i suoi romanzi, che parlavano d’amore con parole così belle che a volte gli facevano dimenticare la barbarie umana”.