Pontificano su giornali e televisioni ideologi e propagandisti della “cultura dell’emergenza”, ringalluzziti come al solito di fronte a ogni grande tragedia collettiva. Il front-runner governatore ligure, Giovanni Toti, ha gettato per primo il cuore oltre l’ostacolo – se d’ostacolo sono norme e leggi: “E allora dico via codice degli appalti, via gare europee, via controlli paesaggistici, via certificati antimafia, via tutto”.
Pare infatti che alla pandemia non sia imputabile soltanto il tragico computo delle vittime. Il contagio virale, secondo Toti, avrebbe indotto quale effetto collaterale un innalzamento del rigore etico degli amministratori pubblici: “Rischi ci sono e terremo la guardia alta, ma il coronavirus ha alzato la soglia di moralità, la gente ha capito che le cose vanno fatte bene e che le leggi vanno rispettate. Io mi fido”.
Gioca a “tana liberi tutti” anche la governatrice umbra Donatella Tesei: “Ma se dobbiamo seguire tutte le procedure è finita. Serve un sistema snello e veloce, sull’esempio della ricostruzione del Ponte di Genova. L’attuale codice degli appalti va derogato”. Proposte politicamente affini alla “pace fiscale ed edilizia” avanzata dal leader leghista Matteo Salvini – forse da ribattezzare “eterno riposo fiscale ed edilizio”, dopo la sua performance a Pomeriggio Cinque.
Dalle retrovie altri autorevoli commentatori si lanciano nella stessa guerra-lampo contro l’armatura soffocante di codici e regolamenti. L’ex presidente della Camera Luciano Violante nell’immaginare “una task force per il futuro” dopovirus si lancia in una diagnosi implacabile sui mali che ingabbiano il paese: “Negli ultimi anni è fiorita una legislazione che ha penalizzato chiunque facesse qualcosa. Gli indirizzi sono stati il sospetto nei confronti delle classi dirigenti, la decrescita felice, la esasperata sorveglianza delle imprese da parte dei poteri pubblici”.
Come uscirne? La ricetta è semplice: “Occorre abbandonare queste infernali ideologie e mettere in campo fiducia, fiducia e ancora fiducia. A Genova stanno ricostruendo il ponte senza scudi penali, con la deroga al codice degli appalti e con accorgimenti procedurali che hanno ridotto drasticamente i tempi”. Sulla stessa linea del fronte si colloca Angelo Panebianco, che dalle pagine del Corriere si scaglia contro i nemici della possibile rinascita del paese, ossia “la tentazione statalista”, “la gabbia d’acciaio burocratica”, e naturalmente il micidiale “virus panpenalista”, inoculato nel tessuto sano del paese dalle tante Procure “pronte a scattare e a bloccare ogni iniziativa anche solo in presenza di qualche vago sospetto di cattivo uso del denaro pubblico”.
Ecco le due parole chiave del mantra emergenzialista: deroga e fiducia. Uno slogan accattivante, se si soffre di amnesia. Perché la storia italiana ci insegna che la scelta pubblica “in deroga a norme e disposizioni vigenti”, figlia primogenita di qualsiasi emergenza, è la via maestra della corruzione e dell’infiltrazione mafiosa.
Così allettante per gli appetiti criminali da rendere quelle condizioni di straordinarietà preziose e ove possibile replicabili, complici pseudo-emergenze – basta lasciar accumulare montagne di rifiuti nelle strade, ad esempio – oppure ritardi indotti dalla divaricazione tra la “lentezza programmata” delle normali procedure e la tempistica improrogabile tipica di grandi eventi, sul modello Expo, ma anche della gestione di altri servizi pubblici – specie quelli sanitari.
Lo stato di eccezione derogatorio da decenni ha un massimo comun denominatore: lavori pubblici, forniture e servizi di pessima qualità assegnati a prezzi esorbitanti a imprenditori ben introdotti nei circoli giusti – anticamere di politici e alti funzionari, comitati d’affari, logge massoniche, altre sedi riparate. In Italia ben conosciamo le ricadute criminogene di questo decisionismo di risulta, che dal fortilizio ideologico della “cultura dell’emergenza” sbandiera la contrapposizione tra l’ottusità immobilista della burocrazia e l’agile snellezza del “fare”.
Lo abbiamo osservato all’opera, ricostruito troppo tardi dalle cronache giudiziarie, nei ruggenti anni 80 delle grandi mangiatoie di Colombiadi e Mondiali di calcio. Poi lo abbiamo visto proiettarsi trionfale nel nuovo secolo, con la berlusconiana legge-obiettivo del 2001, che di fatto rendeva ogni grande opera un’emergenza fittizia (ergo: costi alle stelle e zero controlli sulla realizzazione finale), fino alle onnipotenti strutture commissariali della protezione civile Bertolaso-style trasformate in palestra per la famelica cricca, o alla catastrofica gestione della ricostruzione post-catastrofi, con gli impresari sciacalli che non riescono a soffocare le risa neppure la notte del terremoto in Abruzzo.
Occorre fiducia, ripetono suadenti gli apologeti dell’emergenza permanente. Non può, non deve essere una fiducia incondizionata, tuttavia. Difficile credere che tra gli anticorpi prodotti dall’esposizione collettiva al Covid-19 vi sia l’irrobustirsi miracoloso della tempra morale di una classe dirigente che, al contrario, tutti gli indicatori inchiodano per l’allarmante propensione al malaffare – alta corruzione percepita, economia sommersa ed evasione fiscale galoppanti, collusioni mafiose, e fermiamoci qui per amor di patria.
La feroce crisi economica post-pandemia non potrà che esasperare disperazione, necessità, domande di tanti cittadini e operatori economici, proprio mentre l’inondazione di denari pubblici genera già “straordinarie” opportunità di arricchimento illecito tra i più abili a intercettarle, con qualsiasi mezzo. Si segnalano le prime avvisaglie, qualche turbativa d’asta negli acquisti a peso d’oro di mascherine, qualche tangente negli appalti per i servizi di sanificazione. Un poco di pazienza, e nella desertificazione delle regole scenderanno in campo i più seri e competenti professionisti dell’illegalità, buon per loro se a spalleggiarli vi saranno gruppi mafiosi.
Quant’è degno di fiducia un ceto politico che quella palude di procedure labirintiche e disposizioni sconclusionate l’ha coltivata con pazienza certosina per decenni, norma dopo norma, codicillo dopo codicillo, ipocritamente promettendo di bonificarla? Complessità e farraginosità delle procedure pubbliche e dell’apparato burocratico non sono frutto di una piaga biblica, ma la risultante di politiche scientemente perseguite con il consapevole sostegno della classe politica e dell’alta dirigenza amministrativa.
Nella “selva oscura” delle troppe e ambigue regole, infatti, non si smarrisce solo “la retta via” della cura degli interessi collettivi. Si rafforzano posizioni di rendita, si consolidano poteri irresponsabili e arbitrari di interpretazione e di veto, si creano nicchie opache d’autorità. Da ultimo, nell’incertezza del diritto che ne consegue, si pongono le premesse per un’inevitabile “fuga dalle regole”: sciolti da vincoli e controlli vanno a nozze gli interessi criminali di amministratori corrotti, professionisti e imprenditori collusi, mafiosi.
Singolare paese, l’Italia. Anziché cogliere l’occasione per una riforma rigorosa o una “selezione” davvero semplificatrice di norme utilizzabili nell’emergenza, si magnifica l’eccezionalità gloriosa che negli anni a venire autorizzerebbe i tanti potentati locali e comitati d’affari a maneggiare inosservati l’onda di piena dei miliardi di finanziamenti che dovranno propiziare il riavvio della macchina produttiva e amministrativa.
Eppure un’altra gestione dell’emergenza è possibile: trasparenza integrale di ogni spesa e di ogni acquisto pubblico; utilizzo razionale in via privilegiata di procedure e norme già esistenti – tra cui quelle del tanto vituperato codice degli appalti – che già consentirebbero un drastico snellimento in caso di urgenza; valorizzazione ed estensione di “buone pratiche”, come la vigilanza collaborativa che ha permesso all’Autorità anticorruzione di raddrizzare in corso d’opera gli appalti inquinati dell’Expo; rafforzamento dei controlli successivi sulla qualità finale di lavori, servizi e prestazioni; iniezione massiccia nella pubblica amministrazione di competenze professionali tecniche (ingegneri, informatici, statistici, economisti, aziendalisti, etc.), che facciano da contrappeso alla cultura giuridico-formalistica oggi dominante.
Il dramma globale della pandemia non può rappresentare il giustificativo per un via libera alla corruzione futura.