di Claudia De Martino*

L’emergenza Covid-19 è globale, ed è per questo che è stata definita dall’Organizzazione Mondiale della Sanità una pandemia, tuttavia essa non tocca con la stessa virulenza tutti i Paesi e non minaccia con la stessa urgenza tutte le società. Al contrario, essa scatta un’istantanea dello stato di salute di ogni società e dei problemi che la attraversano. Se a Gaza bastano poche decine di casi per annunciare il collasso sanitario, in Israele ne bastano altrettanto pochi per rivelare lo stato di fragilità delle strutture democratiche del Paese.

Quando il 21 febbraio scorso il primo caso di Covid-19 ha scosso Israele a seguito del ritorno di una cittadina israeliana da una crociera internazionale sulla nave Diamond Princess, il Paese ha pensato di poter limitare i danni mettendo in quarantena tutti i viaggiatori che tornassero dall’Estremo Oriente. Venti giorni dopo – il 15 marzo – erano già impiegati metodi di distanziamento sociale e test molto simili ai Paesi occidentali, ma rispetto a quest’ultimi faceva scalpore la notizia che il Governo avesse mobilitato i Servizi segreti interni (lo Shin Bet) per il tracciamento delle relazioni sociali dei pazienti Covid-19 tramite cellulari, carte di credito e ogni altro mezzo, in modo da ripercorrere le catene epidemiologiche obbligando alla quarantena tutti coloro entrati in contatto con un malato.

La pratica, approvata per decreto in deroga alla Knesset (ovvero al 23esimo Parlamento che si sarebbe dovuto insediare da lì a pochi giorni), appariva discutibile in quanto non forniva molti dettagli e tutele sulle migliaia di informazioni private che sarebbero state raccolte dai servizi segreti e dalla polizia, né per quanto tempo tali informazioni sarebbero state trattenute dalle autorità competenti.

In pratica, Israele esprimeva una gerarchia netta tra il diritto individuale alla privacy e il diritto collettivo alla salute, affermando che era possibile derogare in modo immediato alla tutela dei diritti individuali. In seguito alle proteste amaramente ironiche scoppiate sui social (“Ora Tel Aviv è sorvegliata con gli stessi metodi usati a Hebron”), il governo si è premurato di inserire alcuni vincoli nel mandato affidato alle forze dell’ordine: in primis, i Servizi segreti non avrebbero potuto monitorare direttamente il rispetto della quarantena individuale, ma solo trasmettere le informazioni alla polizia; secondariamente, gli agenti segreti che si fossero macchiati di violazioni sarebbero stati oggetto di pene fino a tre anni di prigione.

Le misure adottate non hanno, però, convinto la parte più attiva della società civile che ha presentato una petizione alla Corte Suprema sull’opportunità di applicare pratiche antiterrorismo alla sorveglianza di cittadini comuni per fronteggiare la pandemia. Il governo ha nondimeno risposto inasprendo le misure già adottate, esprimendo l’intenzione di assegnare più poteri allo Shin Bet nel controllo dell’epidemia e dei cittadini.

Una scelta che dovrebbe preoccupare molti israeliani, soprattutto dopo le inchieste condotte dal quotidiano Yediot lo scorso 27 marzo, che hanno rivelato come i servizi segreti disponessero già di un ampio database con informazioni di intelligence su tutti i cittadini comuni, chiamato in gergo “lo Strumento”. Nessuno nel governo ha ritenuto di dover fornire spiegazioni sul perché lo Shin Bet considerasse necessario possedere una tale mole di dati su privati cittadini. L’unica replica anonima è provenuta dalle file degli stessi servizi segreti, giustificando l’esistenza dello “Strumento” per il bene pubblico, ovvero nell’interesse superiore di salvare vite.

In un Paese fortemente militarizzato, e dotato di industrie avanzate che trasformano tecnologie nate in ambito militare in prodotti per il mercato civile, era più che naturale attendersi che sofisticate tecniche di controllo potessero essere mutuate al contesto civile. Tuttavia, quello che sorprende è che una misura così lesiva delle libertà individuali non solo sia stata intrapresa in una fase di transizione politica in cui ancora manca un governo legittimo (quello di transizione è deputato solo alla gestione degli affari correnti), ma in cui, essendo tutti i cittadini confinati in casa dall’11 marzo, non era possibile reagire con proteste e manifestazioni.

In sintesi, il Coronavirus ha esposto sia la potenza della macchina militare e organizzativa israeliana, che la relativa debolezza della sua democrazia, che può convertire nottetempo discusse prassi antiterrorismo adottate nei Territori Occupati in misure di controllo civile degli israeliani senza valicare alcuna linea rossa.

Il governo si è premurato di rassicurare che i dati personali rimarranno in possesso del ministero della Salute non oltre tre mesi dal superamento dell’epidemia ed esclusivamente a fini statistici, ma visto che l’emergenza sanitaria ha rivelato come il controllo dei cittadini fosse precedente al Covid-19, è chiaro che le garanzie finora annunciate non siano sufficienti a rasserenare gli israeliani sul fatto di non poter esser facilmente equiparati nel trattamento dei dati – e magari in futuro anche in altre pratiche – ai presunti terroristi palestinesi, almeno in tempi incerti come quelli che stiamo vivendo.

*ricercatrice ed esperta di questioni mediorientali

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