Chi l’avrebbe detto: la scuola italiana sta cambiando a una velocità sorprendente. O almeno sorprendente per chi non la vive da dentro. In un post precedente ho chiesto a voi lettori di raccontarmi le vostre storie di didattica digitale, da insegnanti, genitori, studenti (l’invito resta valido: commentate qui o scrivetemi a s.feltri@ilfattoquotidiano.it).

La prima impressione dalle storie che sono arrivate è che la scuola digitale in molti punti di Italia sia già una realtà. Mentre noi giornalisti perdevamo tempo in dibattiti sterili – il cellulare e il tablet in classe vanno ammessi o vietati? – alcuni professori avviavano esperimenti che ora si sono rivelati preziosi per adattare le lezioni al confinamento domestico.

Non tutti i docenti però sono in grado di offrire lo stesso servizio, non tutti gli studenti hanno gli strumenti per imparare in digitale allo stesso modo. Basta che in una casa manchi la giusta connessione o ci sia un solo smartphone e neppure il professore più bravo riuscirà a fare molto.

Questo sulla didattica digitale è un dibattito decisivo perché non sappiamo se e quando la scuola (università inclusa) tornerà alla normalità. E tra i tanti danni che non possiamo permetterci, uno di quelli più gravi sarebbe di formare in modo inadeguato la “generazione Covid”, quella che ci servirà per ripartire. E, forse, tornare alla vecchia normalità non è nemmeno auspicabile, se ci sono forme di insegnamento e apprendimento più efficaci che il virus ci costringe a sperimentare.

Oggi la situazione di molte famiglie è quella che racconta Marco Del Grosso, papà di un ragazzo di 14 anni che studia nella Scuola Internazionale di Siena:

L’Istituto ha chiuso giovedì 5 marzo e venerdì 6 marzo mio figlio ha iniziato, dopo un breve corso la settimana prima su un paio di piattaforme digitali tipo Zoom insieme a tutti gli alunni dell’istituto, a seguire le lezioni da casa. Mio figlio, come i suoi compagni, non ha perso un’ora di lezione: dalle 9.00 alle 16.00 si chiude in camera con il pc davanti e segue le spiegazioni, risponde alle domande, dibatte con i suoi compagni. Fa una pausa al mattino, per pranzo e per la merenda prima di buttarsi sul divano in sala stanco a raccontare a noi, genitori nullafacenti, la sua giornata scolastica. È vero che la scuola è privata, ma il costo di questo metodo è l’avere un pc a casa, le piattaforme digitali sono gratuite. Un pc usato “rigenerato” ha il costo di un telefonino dalle scarse prestazioni, un prezzo, credo, che tutti potrebbero permettersi.

In realtà la questione dell’hardware è un problema più complesso di come sembra: il costo di uno smartphone o di un tablet è relativamente basso, ma siamo anche in una situazione economica disastrosa, molte famiglie vedono il reddito crollare, e poi ci vorrebbe un tablet o smartphone per ogni studente, e una connessione in grado di reggere tutto il traffico. Ma di questo magari parliamo un’altra volta (raccontatemi però quali sono i vostri problemi sul punto).

Per oggi vorrei riportare la testimonianza di un docente in un istituto tecnico di Cuneo, il professor Stefano Robaldo, che rende chiaro un punto importante: la transizione al digitale in epoca da Covid è stata possibile perché molti insegnanti stanno da tempo facendo esperimenti e hanno capito cosa funziona e cosa no:

Da alcuni anni mi servo di una nota piattaforma per impostare alcune lezioni in modalità “flipped classroom” che, a mio parere, è quella che meglio si adatta a tale didattica. Il principio è semplice: si forniscono ai ragazzi un percorso da seguire e del materiale (audio, video, testi ecc.) che i ragazzi possono gestire in autonomia e, una volta in classe, si passa alla discussione e alla risoluzione di dubbi e problemi, valutando ciò che hanno prodotto. Non è semplice e non è adatto a tutti i gruppi-classe, ma in molti casi emergono dei lavori interessanti, originali, inaspettati: un diverso approccio rispetto alla classica lezione frontale.

Poi è arrivata la pandemia di Covid e quello che prima era sperimentale è diventato l’unico approccio possibile:

Sin da subito il nostro istituto ha previsto delle cartelle condivise tra gli insegnanti, nelle quali è possibile caricare tutto ciò che facciamo (materiali, video lezioni, presentazioni, modalità di verifica, ecc). A livello di singoli dipartimenti era una prassi già consolidata, pur se usata troppo poco (in prevalenza per i materiali relativi all’esame di Stato ecc).

Ecco come funziona ora la settimana di didattica on line del professor Robaldo:

A inizio settimana presento ai ragazzi in videoconferenza il contenuto della lezione, in un’introduzione contenutistica e metodologica; dopodiché carico sulla piattaforma la lezione registrata (in genere sui 20/25 minuti: in base alla mia esperienza è la soglia di attenzione massima) e tutti i materiali di supporto che i ragazzi possono guardare e riguardare negli orari che preferiscono. Unico vincolo temporale la videoconferenza alla fine della settimana, per discutere sulle problematiche emerse, approfondire, risolvere dubbi, consolidare l’apprendimento. Ovviamente rimango a disposizione, durante la settimana, per qualsiasi necessità via mail, o sulla chat della piattaforma (dando orari precisi: si tratta di un lavoro che occorre saper regolare, in queste giornate tutte uguali).

Mettere dei limiti è fondamentale per rendere sostenibile la didattica on line ai docenti: non può diventare un lavoro da 24 ore al giorno, 7 giorni su 7, ma neanche può essere confinato nella gabbia abituale delle ore di lezione canoniche. L’equilibrio è delicato.

Anche la valutazione deve cambiare, non si possono fare prove che misurino lo studio se le rispose si trovano al volo su Google. Ecco come si è adattato il prof. Robaldo:

Le valutazioni si basano prevalentemente sulle interrogazioni orali (a piccoli gruppi, basate più sul ragionamento/discussione che non sulla semplice conoscenza dei contenuti); in genere sono un momento molto importante, perché emergono spunti e riflessioni inediti (non poche volte i ragazzi mi hanno detto: “prof, abbiamo imparato altre cose durante l’interrogazione!”). Gli scritti invece mostrano il limite di questo tipo di didattica.

E’ un mondo nuovo, le regole vecchie non funzionano più. Chi cerca di replicare l’insegnamento tradizionale va incontro a disastri. Il professor Robaldo riassume così questo punto cruciale:

Molti colleghi tendono a replicare ciò che facevano in classe (lezioni frontali da 60 minuti in videoconferenza..! un delirio che non tiene conto di un’infinità di fattori, primo tra tutti un ambiente di apprendimento che non è l’aula fisica che tutti conosciamo).

Nei prossimi giorni vi proporrò altre storie di adattamento riuscito, ma vorrei anche raccogliere quelle di problemi, ostacoli, sfide. Professori e docenti affrontano gli stessi problemi in tutta Italia: non c’è una soluzione uguale per tutti ma sicuramente ci sono idee, strumenti e materiali che possono essere condivisi per accelerare questa transizione forzata, inevitabile. Ma forse anche necessaria e auspicabile.

Community - Condividi gli articoli ed ottieni crediti
Articolo Precedente

Coronavirus. Mancano i medici, ma ritarda l’aumento delle borse di specializzazione. Promesse 5mila in più, ne servono almeno il doppio

next
Articolo Successivo

Coronavirus, Azzolina: “Troppo rischioso tornare a scuola. Pagelle vere, anche con i 5. Maturità? Auspicabile l’esame a scuola”

next