Dieci. Un dieci pieno con tanto di (auto)lode. Questo è il voto che Donald J. Trump, presidente degli Stati Uniti d’America, ha senza esitazioni dato a se stesso quando, tre settimane orsono, durante una conferenza stampa, gli è stato chiesto di giudicare la propria performance di fronte all’incedere della pandemia. “In una scala da zero a dieci, come valuta la sua risposta alla crisi del coronavirus?”. Questo aveva molto retoricamente domandato uno dei giornalisti. E questo – “io mi do un dieci” – era quel che, con molto prevedibile immediatezza, Donald Trump gli aveva risposto, subito rimpinguando quello scontatissimo “massimo dei voti” con la lode di cui sopra. O, ancor meglio, con un vero e proprio crescendo di lodi a se stesso. Di fronte all’incedere di quel “nemico invisibile”, aveva in sostanza detto Trump, lui aveva fatto “un grande lavoro”. E tutto questo a dispetto delle avverse circostanze nelle quali gli errori altrui – o l’altrui perfidia – l’avevano costretto ad operare.

Era il 21 di marzo. Gli Stati uniti già erano, in quel momento, decisamente avviati a conquistare ogni record in materia di covid-19. Presto, già appariva chiarissimo, sarebbero stati primi in tutto. “Number one”, tanto per infettati quanto per morti. Eppure, nessuno – nonostante l’ovvietà dei ritardi, degli errori, delle sottovalutazioni, delle ridicole incongruenze e delle molto trumpiane fandonie che avevano fatto da preludio alla catastrofe – poteva seriamente attendersi, dal presidente in carica, una risposta diversa. Perché è vero: a suo modo (molto a suo modo) Donald Trump è davvero un vittorioso condottiero o, come lui stesso afferma, un presidente da dieci e lode. Lo è perché è uscito assolutamente intatto – inequivocabilmente uguale al se stesso di sempre – dalla prova d’una pandemia che tutto ha cambiato. Tutto, ma non Donald Trump.

Tale Trump era prima dell’avvento del covid-19, e tale Trump è rimasto. Fosse una chitarra, o un violino, l’attuale presidente Usa non avrebbe, oggi come ieri, che due corde: una per esaltare se stesso ed una per insultare i suoi nemici. Due corde da toccare – entrambe e, spesso, contemporaneamente – con un unico strumento. Non le dita o l’arco, ma la menzogna. Sotto la folta chioma dall’innaturale colore e dall’ancor più innaturale origine che di Donald Trump copre l’estremità superiore, giace infatti, immutabile, un cervello che lavora, senza eccezioni, lungo il filo d’una molto rudimentale logica binaria. Uno e zero, zero e uno. Due sole misure e tutte e due – salvo rare eccezioni – relative a valori che non esistono. O che, se esistono, sono vere e proprie falsità. Niente distinguo, niente sfumature. Di questo sempre si è alimentato il trumpismo. E questa è la musica che, da qualche settimana a questa parte, l’America – un’America piena d’angoscia e di paura – ascolta durante i quotidiani rapporti presidenziali sull’andamento dell’epidemia.

In realtà, la performance di Donald J. Trump in materia di covid-19 andrebbe valutata in una scala, non da zero a dieci, come banalmente proposto dal giornalista, ma da zero a centomila (o duecento mila). Perché è lungo questa molto più estesa parabola che meglio si misura il senso – il senso vero – della sua risposta alla pandemia. Lo zero è quello contenuto in una sua dichiarazione che, lo scorso 26 di febbraio, quando già il coronavirus era stato definito “una pandemia”, così riassumeva lo stato delle cose negli Usa: “Grazie a quel che abbiamo fatto – aveva detto il presidente – il rischio per il popolo americano è molto basso… Abbiamo 15 persone (infettate, ndr) e presto queste quindici scenderanno vicino allo zero. That’s a pretty good job we’ve done. Abbiamo fatto un eccellente lavoro…”. Ed il centomila (o duecentomila) è il numero dei morti che, poco più di un mese più tardi, il 30 di marzo, i modelli elaborati dalla medesima Amministrazione – o dai professionisti della salute che, in questi mesi, hanno fatto da disperato contrappunto alle strampalate dichiarazioni del presidente – prevedevano come risultato della pandemia.

Una distanza incolmabile? Un abisso che segna, con aritmetica precisione, la realtà d’una disfatta? Non per Trump. Perché queste sono state le parole con le quali il presidente degli Stati Uniti d’America ha, senza batter ciglio, commentato le cifre di quei modelli. Centomila morti? Se queste – o chissà addirittura qualcosa meno – saranno le cifre della pandemia (una pandemia che lui, ovviamente, aveva previsto ben prima che fosse stata dichiarata tale) vorrà dire che “abbiamo fatto un eccellente lavoro”. Cambiano i numeri. Cambiano da zero a centomila. Resta l’“eccellente lavoro”. Resta il “dieci con lode” che Trump invariabilmente dà a se stesso. E resta perché, quale che sia il numero dei morti, è sempre solo a se stesso che, come il Narciso della mitologia classica, Trump rivolge la sua attenzione.

A se stesso ed al suo “rating”. Ovvero: al numero di spettatori che, ogni sera, si sintonizza sulle sue quotidiane e sempre più surreali esibizioni televisive. Giorni fa il Wall Street Journal – un organo di stampa che a Trump sempre ha tirato la volata – ha molto timidamente cercato, in un editoriale, di far notare al presidente come quelle esibizioni, trasformate in una sorta d’incontro di pugilato tra lui ed i giornalisti, rischiasse d’esser controproducente. E proprio questa è stata, in un piccatissimo tweet, la replica di Donald Trump. Controproducente? Che il Wall Steet Journal guardasse, prima di unirsi al coro delle “fake news”, le cifre del rating…

Il numero di morti (con l’annesso bagaglio d’umane sofferenze) non è, in fondo che un insignificante dettaglio. È nello specchio d’acqua, non d’un torrente, ma del rating che, pandemia o non pandemia, il presidente Usa continua, ammaliato, a rimirare la sua bellezza. In quello specchio, notoriamente, Narciso infine cadde ed annegò. S’appresta Trump a seguire – trascinando con sé l’America ed il mondo – il medesimo destino?

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