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di Frederick Bradley
Un evento catastrofico ha in genere la forza per imprimere sul territorio un segno tale che osservando il suo paesaggio possiamo percepire un prima e un dopo l’evento stesso. Questo avviene sia in un contesto naturale, si pensi all’arcipelago di Santorini le cui isole disegnano il bordo dell’immenso vulcano che scoppiando intorno al 1600 a.C. frammentò l’isola originale nella caldera attuale, sia in un contesto antropico, ad esempio il paesaggio di Manhattan con Ground zero al posto delle Torri Gemelle.
Il paesaggio diviene particolarmente eloquente a questo proposito quando la catastrofe ha comportato l’abbandono di un’area urbana da parte della popolazione che l’aveva costruita e che vi viveva. Spesso in questi casi l’abbandono è dovuto a emergenze sanitarie (es. l’epidemia di febbre gialla a Grand Bassam, la vecchia capitale della Costa d’Avorio) o al crollo del sistema socio-economico per motivi diversi (es. le città Maya nello Yucatàn). Qui la lettura del paesaggio è facilitata dal fatto che l’abbandono degli abitanti che lo hanno costruito è stato totale, lasciando la natura libera di ricoprire i segni dell’uomo.
Ma se l’abbandono non è totale e le popolazioni, pur profondamente segnate dalla catastrofe, continuano a vivere nelle città colpite, allora si aprono scenari spesso inediti che sono funzione di come l’uomo, superata la crisi, ha saputo o potuto reagire alla devastazione. I paesaggi urbani del Pianeta ci mostrano vari esempi a cui corrispondono altrettanti livelli di reazione.
Un esempio di forte capacità di ripresa è il paesaggio di Hiroshima dove il prima è testimoniato dal rudere dell’edificio che ha resistito allo scoppio della bomba atomica, ora trasformato nel Monumento della Pace, e il dopo è l’intera città al suo intorno ricostruita sulla tabula rasa provocata dall’esplosione. Alla base della scala della capacità reattiva c’è il paesaggio di San Gimignano: qui la scena è dominata dal prima, cioè il borgo come si presentava prima che l’epidemia di peste del 1348 lo colpisse così forte da bloccare per secoli la ripresa del sistema socio-economico e la conseguente evoluzione del tessuto urbano. Di fatto, la catastrofe cristallizzò l’impianto medievale preesistente che pertanto è giunto fino a noi praticamente intatto.
E’ in quest’ottica di un prima e un dopo che si guarderà al futuro paesaggio del Pianeta? La pandemia di coronavirus avrà la forza per modificare la struttura del nostro paesaggio attuale? E’ opinione diffusa che sarà inevitabile un cambiamento soprattutto sul piano sociale ma anche delle politiche ambientali, della gestione del territorio, ecc. Personalmente non ci credo molto (il trauma non sarà così forte da convincerci a rinunciare ai privilegi di cui godiamo) e il tanto declamato “nulla sarà come prima” mi sembra più un modo per esorcizzare il dramma che non il frutto di una maturazione del pensiero.
In ogni caso sarà il paesaggio del nostro futuro prossimo a dare la misura dell’eventuale cambiamento. Se ciò avverrà, sono ormai chiare le linee guida da seguire in fase di progettazione, almeno a livello urbano, per prevenire la diffusione delle prossime epidemie che sappiamo ormai certe. Oltre all’incremento delle politiche di riduzione degli inquinanti e di rinverdimenti sul modello del Bosco Verticale di Boeri, bisognerà intervenire ex novo su almeno tre punti:
1. il distanziamento sociale (e la riduzione delle possibilità di assembramento);
2. il contenimento e la regimazione della mobilità intraurbana;
3. l’incremento dell’approvvigionamento alimentare di prossimità.
Una vera e propria sfida epocale per gli urbanisti che dovranno per quanto possibile intervenire sull’esistente sovraimponendovi modifiche che vadano nelle direzioni indicate, creando poco a poco un dopo in cui non sarà percepibile solo la difesa dalle epidemie che verranno ma anche la soluzione a gravi anomalie del nostro attuale sistema di vita che ora, grazie al coronavirus, abbiamo (forse) capito essere insostenibile.