A pochi passi da casa di chi scrive c’è una scuola elementare. Ha un cortile spazioso, diversi alberi ad alto fusto, i muri colorati da murales dipinti dagli alunni. Dalla grande porta, all’ora di pranzo, i bambini escono un po’ ridendo e urlando e un po’ mettendo a fuoco la folla sul marciapiede per individuare i genitori o i nonni.

La scuola Giacomo Leopardi di viale Bodio, nel quartiere della Bovisa, a Milano, per cinque anni è stata il rifugio antiaereo del quartiere: il “ricovero” numero 87 di 135 in città. Si trova due metri sotto terra, è largo 220 metri quadri: dieci stanze, due bagni alla turca, una cucina, un rubinetto. “Al gabinetto”, “acqua potabile”, “vietato fumare”, “uscita di soccorso”: sulle pareti si moltiplicano scritte e frecce, appoggiate si trovavano vanghe e badili che potevano servire a chi rimaneva incastrato, bloccato dalle macerie provocate da crolli, ma vivo, dopo un bombardamento. L’arredamento era scarno, ogni rumore faceva eco, lunghe panche ospitavano chi era entrato – senza correre perché era proibito – dopo aver sentito suonare le sirene antiaeree e si trovava ad aspettare lo sgancio delle bombe dal cielo, tendendo l’orecchio al rombo dei bombardieri, pregando che anche questa volta andasse tutto bene. E’ visitabile da qualche anno grazie alla tenacia della preside Laura Barbirato.

E’ proprio per storie come queste, nascoste dietro mille portoni di mille quartieri, che il 25 aprile è una festa divisiva, come ha ridetto l’ex ministro Ignazio La Russa che, di ventennio in ventennio, insiste con la sua litania un po’ stanca contro la celebrazione della Liberazione definitiva dal governo fascista fantoccio e collaborazionista di Salò e dall’occupazione nazista. Il 25 aprile è divisivo: divide tra prima e dopo. Niente è più divisivo del 25 aprile ed è proprio per questo che tutta Italia festeggia. Perché prima del 25 aprile si stava peggio.

Si festeggia proprio perché quel giorno di 75 anni fa l’Italia si liberava da un regime fondato sulla sopraffazione dell’uomo sull’uomo e sulla violenza, che aveva privato i suoi cittadini dei diritti e delle libertà fondamentali, gettandoli nell’abisso della crisi economica – causata dal mito dell’autarchia – e quindi della miseria e della fame, nella vergogna eterna del razzismo di Stato, nella tragedia immane della guerra mondiale che spezzò la vita a 472mila italiani, un terzo dei quali civili. A questi – ricordava in un libro uscito un anno fa, Mussolini ha fatto anche cose buone (Bollati Boringhieri) – vanno aggiunti i morti per le violenze squadriste, quelli in carcere e al confino, i soldati uccisi nelle guerre in Etiopia e in Libia e chi perse la vita per le pessime condizioni sanitarie. “Un numero – scrive l’autore del libro, lo storico della mentalità Francesco Filippi – che sorpassa le cifre delle morti italiane in qualsiasi altro evento storico e che fanno del fascismo l’avvenimento più mortifero della storia di questo Paese. Se mai c’è stato un genocidio sistematico del popolo italiano, questo genocidio è stato avviato, più o meno coscientemente, dalla tirannide fascista”.

La guerra che trasformò le scuole in bunker anti-bombardamento e che provocò centinaia di migliaia di vittime civili – come i 184 piccoli martiri di Gorla, un altro quartiere di Milano – non fu un incidente, una deviazione dal fascismo. Era quello che il fascismo voleva da sempre. Fu conseguenza dell’essenza stessa del fascismo e del suo capo che proprio la sera del 25 aprile sparì in silenzio da Milano. Il fascismo totalitario, Mussolini stesso, come da decenni sostiene il più autorevole storico del fascismo vivente, il professor Emilio Gentile, vedeva i cittadini solo come soldati, educati a un solo comandamento: credere, obbedire, combattere.

L’uscita un po’ strampalata di un vicepresidente del Senato repubblicano (con la a) che tenta di mescolare la fine di questa epoca così dolorosa, tragica, della storia italiana con la semplice fine di una guerra sanguinaria come tutte le guerre consente a tutti di ricordare ancora una volta che la concordia nazionale non passa attraverso la dimenticanza, non è un colpo di spugna. Ma passa di nuovo dalla risposta che Vittorio Foa dette al senatore missino Giorgio Pisanò che voleva concluderla con una stretta di mano. “Ci siamo combattuti da fronti contrapposti, ognuno con onore, possiamo darci la mano”. “E’ vero abbiamo vinto noi e tu sei potuto diventare senatore, avessi vinto tu io sarei ancora in carcere”.

Il 25 aprile è divisivo perché sarà, di nuovo, la festa di un riscatto nazionale nato dalla rivolta morale nei confronti del fascismo e dei suoi atti abietti durati 25 anni, dalle prime bastonature per strada all’ultima sacca di combattimento intorno al lago di Como.

Tutto questo, infine, permette di ritrovare le parole del presidente della Repubblica, la cui nettezza spesso è sottovalutata perché sopravanzata dal chiasso del resto della classe politica. Il discorso integrale, pronunciato il 25 gennaio 2018 per gli ottant’anni dalla promulgazione delle leggi razziali volute dal fascismo, è sul sito del Quirinale.

“Sorprende sentir dire, ancora oggi, da qualche parte, che il fascismo ebbe alcuni meriti, ma fece due gravi errori: le leggi razziali e l’entrata in guerra. Si tratta di un’affermazione gravemente sbagliata e inaccettabile, da respingere con determinazione. Perché razzismo e guerra non furono deviazioni o episodi rispetto al suo modo di pensare, ma diretta e inevitabile conseguenza. Volontà di dominio e di conquista, esaltazione della violenza, retorica bellicistica, sopraffazione e autoritarismo, supremazia razziale, intervento in guerra contro uno schieramento che sembrava prossimo alla sconfitta, furono diverse facce dello stesso prisma.

Abbiamo, in questo giorno della Memoria, ascoltato testimonianze coinvolgenti dei sopravvissuti. Nelle loro parole si avverte la forza e il fascino della loro vita ritrovata, della loro volontà di vivere con pienezza ma, al contempo, ci si rende conto dell’immenso patrimonio di presenze e di protagonismi che ci avrebbe assicurato la vita di coloro che sono stati trucidati nei lager e che quella programmata violenza omicida ci ha sottratto.

Le leggi razziali in Italia erano entrate in vigore nell’autunno del 1938. Il 1 gennaio del 1948, dopo neppure dieci anni, la Costituzione Italiana sanciva solennemente che ‘tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali’.

Di mezzo, vi era stata la cesura della guerra. Una guerra terribile, che aveva sparso morte e devastazione su larga parte del mondo. E che aveva aperto gli occhi del mondo sulla follia portatrice di morte del nazismo e del fascismo.

La Memoria, custodita e tramandata, è un antidoto indispensabile contro i fantasmi del passato. La Repubblica Italiana, nata dalla Resistenza, si è definita e sviluppata in totale contrapposizione al fascismo. La nostra Costituzione ne rappresenta, per i valori che proclama e per gli ordinamenti che disegna, l’antitesi più netta.

L’indicazione delle discriminazioni da rifiutare e respingere, al suo articolo 3, rappresenta un monito. Il presente ci indica che di questo monito vi era e vi è tuttora bisogno. Egualmente credo che tutti gli italiani abbiano il dovere, oggi, di riconoscere che un crimine turpe e inaccettabile è stato commesso, con l’approvazione delle leggi razziali, nei confronti dei nostri concittadini ebrei.

La Repubblica italiana, proprio perché forte e radicata nella democrazia, non ha timore di fare i conti con la storia d’Italia, non dimenticando né nascondendo quanto di terribile e di inumano è stato commesso nel nostro Paese, con la complicità di organismi dello Stato, di intellettuali, giuristi, magistrati, cittadini, asserviti a una ideologia nemica dell’uomo.

La Repubblica e la sua Costituzione sono il baluardo perché tutto questo non possa mai più avvenire”.

Per tutto questo il 25 aprile è divisivo. Per questo è la festa di tutta Italia.

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