Domenica scorsa, violando l’isolamento nazionale, un Jair Bolsonaro in t-shirt a bordo di una camionetta scoperta ha arringato i sostenitori più estremisti, durante una dimostrazione tenuta davanti alla sede dell’esercito a Brasilia, interrotta poi dai suoi colpi di tosse. Avallando gli striscioni che ricordano l’intervento militare del 1968 – quando con l’atto Al-5 l’esercito chiuse di forza il Congresso, ufficializzando la dittatura – anticipa in pratica la campagna elettorale del 2022, visto che la sua pessima gestione della pandemia in corso lo vede in netto calo nei sondaggi.
Nonostante il coro di condanna dei suoi nemici – dal presidente della Camera Rodrigo Maia, ai governatori di São Paulo e Rio João Doria e Wilson Witzel fino al ministro Barroso della Corte Suprema – egli conta sul fatto che la richiesta di impeachment già depositata, per via dei tempi tecnici necessari per l’approvazione definitiva (prima votazione alla Camera, passaggio al Senato in caso di esito favorevole e votazione finale sempre al Senato sotto la supervisione del presidente del Supremo Tribunale Federale), gli consenta comunque di andare avanti: l’eventuale sospensione avverrebbe solo dopo la 2° votazione al Senato. E se invece la richiesta fosse bocciata già alla Camera, Bolsonaro potrebbe presentarsi alla nuova candidatura, in veste di eroe agli occhi dell’opinione pubblica. Ma al di là di queste manovre machiavelliche, il paese reale è un altro.
Sostentamento in tempi di quarantena
La chiusura delle attività commerciali e delle fabbriche è stata prorogata fino al 4 maggio. Il pagamento degli aiuti d’emergenza per i lavoratori fermi, R$ 600 mensili a testa per tre mesi, che possono arrivare a 1200 in caso di nucleo familiare – due coniugi o madre single con figli a carico – è iniziato in ritardo, il 17 aprile, con l’accredito della prima tranche su un conto speciale. Le altre due tranches saranno versate il 30 aprile e il 30 maggio. Ne hanno fatto richiesta 50 milioni di cittadini, anche a fronte dei numerosi licenziamenti già in atto.
E molti resteranno fuori, basti pensare ai venditori ambulanti o alla comida de rua, attività commerciali basilari per il sostentamento delle classi minori, sovente escluse dal welfare. La forzata inattività le impoverisce giorno dopo giorno, e molti infrangono i divieti. Il lavoro più ingrato – sia sotto il punto di vista del compenso che del rischio contagio – ma in tempi di coronavirus pressoché indispensabile è il rider che porta da mangiare a casa della gente, ora che ristoranti e bar sono chiusi.
La questione razziale è sempre determinante nel posizionare il popolo sui gradini della piramide sociale brasiliana, secondo il censo e le tonalità di colore della pelle. Meno soldi si ha e più sotto si sta, specie se si è pretos e pardos, neri discendenti da africani o meticci nati da unioni tra neri e bianchi, o tra neri e indios. Anche in campo alimentare c’è distinzione: la carne bovina è uno status symbol per la classe media, mentre il maiale è più per poveracci e neri, che spesso sono tutt’uno.
La vita agreste: utopia o via di scampo?
In questi giorni di esilio volontario nell’entroterra del Paraiba, dove i numeri del contagio sono minori rispetto alle metropoli, l’unico svago che mi concedo sono le fughe nei centri rurali, a una cinquantina di km dalla città di Campina Grande. I più conoscono la capitale João Pessoa, meta ambita dai brasileiros benestanti del Sud per via delle spiagge di Tambaú, Jacumá, Coquerinho, e Tambaba, ma il Paraiba autentico è qui in campagna.
Il termine “paraiba” in Brasile è perlopiù usato in senso dispregiativo. Nel celebre film Cidade de Deus, che tratta delle guerre tra gang per il controllo della droga nell’omonima favela, viene citato dai “soldati” dei boss per deridere i campagnoli che emigrano dal Nord Est per andare a lavorare a Rio. In realtà, a Lagoa Seca, Alagoa Nova, Areia, etc. si viaggia nella macchina del tempo, come se tornassimo indietro nel nostro dopoguerra degli anni 50.
Tranne Areia, che in tempi normali accoglie anche turisti che vanno a fotografare le capanne dipinte nella Comunidade De Quilombolas – i discendenti degli schiavi afro – gli altri paeselli vivono esclusivamente di quello che producono. Le cooperative agricole e di allevamento, tutte familiari, provvedono al 50% del fabbisogno di carni, pollame, fagioli, manioca, riso, frumento, frutta e formaggio per l’intero stato. Il governo concede sovvenzioni minime, che coprono appena il 16% dei produttori. Eppure in Brasile, queste famiglie forniscono ai mercati l’80% della produzione nazionale di fagioli e manioca, 34% di riso, 21% di frumento, 55% di carne suina e frango (pollo).
La gente continua la propria vita come se niente fosse, ci sono tre negozi in paese: una cartoleria che vende quaderni e libri di scuola, una farmacia e un fornaio. Giornali e tv accese non ne vedo, per cui panico zero.
Tibullo nei suoi tre libri di Elegie loda la vita di campagna, maledicendo la guerra e gli amanti infedeli (ne ha tre: due donne, Delia e Nemesi, e un ragazzo, Marato, che lo cornificano alla grande, ma anche lui non scherza.) “Un altro accumuli pure oro luccicante, e possieda ettari sconfinati di terra, e Marte faccia squillare pure le sue trombe. A me è cara la povertà, che però attraverso una vita frugale illumina il mio cuore di una luce instancabile”.
La vita nei campi è dura, ma dignitosa. Meglio qui che lavorare sotto padrone a meno di 200 euro al mese, vivendo dentro una lurida favela, per finire magari ammazzato dalla dengue o da un proiettile vagante. Meglio la vita agreste che una vita agra.