L’uomo si restringe, la natura si allarga. Detto altrimenti, con una locuzione eco-centrica, “La natura si riprende i suoi spazi”. Da quando è iniziata la pandemia e il nostro confinamento, la rete è stata invasa da fotografie e filmati che ritraggono animali selvatici che gironzolano negli ambiti urbani di abituale umana pertinenza. Una sorta di rinaturalizzazione degli spazi altrimenti preclusi. Un po’ quello che prefigurava anni addietro Alan Weisman ne Il mondo senza di noi.
Si va dall’anatra con gli anatroccoli al seguito che zampetta per il centro di Torino al lupo che si aggira per le vie di Venaus o di Sesto Fiorentino, dai cinghiali davanti alla stazione Brignole di Genova agli stambecchi sull’asfalto di Balme. Ma gli animali selvatici sull’asfalto e in mezzo al cemento non sono che un aspetto di un fenomeno visibile in piccolo di quello che io chiamo il “verde clandestino“: dappertutto sui marciapiedi dilagano le piante pioniere non più disturbate dal viavai umano.
Ma se le piante è normale che dalla terra sottostante rivendichino il diritto alla luce, a ben pensarci è un po’ anomalo che un’anatra giri per le vie del centro di Torino: sembra quasi una sfida, un rivendicare una riappropriazione di qualcosa che c’era e che non c’è più. Che potrebbe però tornare ad esserci. Ricordiamoci che se l’uomo abbandonasse una città per qualche decennio la ritroveremmo completamente trasformata, con piante e animali in ogni dove.
Ma la pandemia ci consente altresì di fare un’altra considerazione. È bastato un mese e mezzo di confinamento per uomini e relative attività che l’economia globale è andata in tilt, c’è la recessione e molte aziende chiuderanno e aumenterà sensibilmente la povertà. Questo la dice lunga sia sulla fragilità del mondo che abbiamo creato, sia quanto si dipenda oramai da beni, prodotti, attività che vengono da chissà dove.
Quanto diversi siamo dalle comunità animali, dalla loro capacità di sostentamento, di adattamento e di sopravvivenza. Pur nella sensibile diversità, qualcosa da loro proprio oggi potremmo imparare, e cioè recuperare un tipo di economia che rispettasse l’etimo della parola “economia”: oikos casa e nomia regola. La regola della casa, dove per casa non si intende il mondo, ovviamente, ma uno spazio ristretto.
La pandemia dovrebbe indurci appunto a ragionare su questo concetto: la possibilità di recuperare un ambito economico che definirei “di prossimità”, e che idealmente tende all’autosufficienza. Una nuova realtà che poi non sarebbe molto diversa da una vecchia, quella che contraddistingueva l’Italia solo qualche decennio addietro.