Piccolo stupidario del fine settimana calcistico (che non c'è), con il titolo che vuole essere un tributo (a modo nostro) alla fortunata trasmissione Mediaset - In questa puntata l'intervista alla conduttrice di Quelli che il calcio: l'infanzia in giro per il mondo, le cinque lingue parlate, il giornalismo, la Gialappa's e la quarantena
C’è una cosa dalla quarantena per cui correresti il rischio di compilare lasciapassare falsi o fare falò di mascherine sul pianerottolo: tornare a vedere Mia Ceran mentre conduce Quelli che il calcio. Appese le sue scarpette (col tacco dodici) al chiodo, riposti i gilet di Luca Bizzarri in naftalina, depositate le cuffie di Emanuele Dotto su uno scaffale del museo Marconi, Mia sfiora il pianeta Kitikaka con una dolce rabona e un ironico doppio passo alla Pascutti.
Un ritardo all’appuntamento (telefonico ndr…) per una commissione, sto per chiamare i carabinieri…
Stavo solo facendo la spesa. Peraltro giro le piccole botteghe ed evito i supermercati in questo momento luoghi un po’ infelici. Giusto un attimo di fila in più. Niente di esotico. Nessuna mira urbana. Seguo rigorosamente i precetti.
Ansia da reclusione negli ultimi due mesi?
Ansia su quello che vedo intorno. Chi come me sta a Milano si sta abituando al suono delle ambulanze. C’è l’idea di un futuro incerto. Rispetto ad una pandemia ci sentiamo tutti un po’ impotenti.
A breve pare finisca lo #stateacasa…
Non ho una sensazione alla “evviva evviva ci fanno uscire”. Andiamo incontro ad un paio d’anni in cui la nostra vita cambierà. Non è che usciremo dal lockdown e non ci entreremo mai più. Non lo sappiamo. Sarà curioso vedere cos’è sopravvissuto di quello che conosciamo.
Chi vive in Lombardia sembra vivere il quadruplo dell’angoscia vissuta nelle altri parti d’Italia…
Mi spaventa vedere cosa sarà Milano domani. Sono tra quelli che l’hanno scelta per lavoro in età adulta e che l’hanno amata. Sono sinceramente innamorata di questa città. E sono terrorizzata su quanto sarà difficile rialzarsi. Ho deciso di fare quarantena qui, non con la mia famiglia a Roma, o nella mia casa in campagna. Sono voluta rimanere qui in un momento difficile e sono felice di vedere della facce e parlare con i bottegai e capire un minimo di senso di quello che sta accadendo. Poi posso dire una cosa che non sopporto?
Prego, Kitikaka è casa tua.
Odio questo linguaggio bellico: “La guerra al virus”. Ho studiato i paesi nordici per un servizio giornalistico che ho pubblicato su Instagram. Hanno eliminato questo ordine lessicale dalle scelte comunicative istituzionali. Anche per paesi con approcci diversi al lockdown. Non parlano mai di guerra, trincea, lotta. E io sono d’accordo con loro. Il prossimo servizio che sto preparando è sul Texas dove c’è stata tutta una corsa ad armarsi dove già il possesso dalle armi da fuoco era un po’ un abitudine, come per noi tenere le piantine aromatiche sul balcone. Io mi domandavo: ma esattamente contro il virus a chi spari?
Poi c’è l’anomalo caso Svezia: mai fatto il lockdown all’italiana.
Ho parlato con diversi italiani che vivono lì. Ogni tanto si è un po’ Lost in translation. C’è sempre una barriera linguistica, meglio fare un check con chi ci vive. E ho scoperto che abbiamo un approccio diverso: noi italiani siamo in attesa del prossimo discorso di Conte per capire cosa accade e c’è sempre la successiva fase interpretativa. Si apre sempre un dibattito a posteriori che sia al bar, in tv, col mio compagno a cena. Lo svedese invece recepisce quello che gli viene comunicato con grande fiducia nelle istituzioni ed esegue.
Oramai ti sei dimenticata che la domenica facevi un programma sul calcio…
Ma come dimenticata? Io soffro come un cane.
Cosa ti manca di più di QCC?
Quella cosa che tu vai al lavoro e sai che ti divertirai. Un risultato corale figlio dell’incontro continuo con tutto il cast: Luca e Paolo, Federico Russo, Brenda Lodigiani, Ubaldo Pantani. Ci sentiamo comunque tutti i giorni. Luca e Paolo meno perché sono più orsi.
Invece ci si gira i pollici sul divano…
Domenica mentre pulivo i vetri dentro casa con la tuta e il fazzoletto legato in testa, pensavo: io che qualche domenica fa avevo un tacco dodici, ma cos’è successo? Vedo gente che panifica, fa i dolci. Io abitualmente cucino, ma mettermi a fare una cosa del genere tutti i giorni, davvero, non ce la faccio più. Una volta che ho fatto il pane che devo fare? Aprire una pizzeria? Tutta la romanticizzazione della quarantena la trovo fastidiosissima, quasi da privilegiati, quale io sono figuriamoci. Non riesco a farla mia.
Qualche occhiatina al web, ai social, allo streaming…
Bobo Vieri in diretta Instagram è fantastico. L’ho seguito con Cassano. Indimenticabili. Loro non hanno quell’intento di trattenere, del dire ora faccio l’alternativa allo show tv. Loro ti permettono di origliare una videochiamata. Perché se la facessero si direbbero quelle cose lì. Senza pensare a te che guardi. Sentire Bobo e Cassano non parlare di campionato di calcio, ma di loro aneddoti e ricordi, rende partecipe chiunque non sia interessato al mondo del pallone. Sono le uniche cose che guardo a parte i grandi mestieranti da Jovanotti a Savino o Pardo. Tutto il resto, compresi i tutorial sul lievito madre mi portano a dire: ridateci la televisione.
Il sense of humor ce l’hai da quando sei nata?
Mi piace ridere. Anche dove non c’è tendo a vedere l’aspetto buffo. Sono cresciuta in giro per il mondo da figlia unica. Per questo mi sono dovuta riscrivere certe situazione per rivederle in maniera più comica. Poi lavorando con i “gialappi” (la Gialappa’s band ndr) è stata formazione vera. Mi hanno svezzata. Anche Michele Foresta, il mago Forest, mi ha insegnato tantissimo come lavorare sulle battute.
Com’è stata la tua infanzia a Treviri in Germania: si legge Il Capitale di Marx tutti giorni?
(ride ndr) Vivevo in una zona benestante della Germania dell’Ovest. Parliamo del 1986. A peregrinare ho iniziato presto. Mia madre ci ha sempre tenuto a dirmi che non mi sono persa granché. Mi è andata meglio con Miami e Roma.
Adolescenza a Miami, sembra un thriller hollywoodiano…
Andai lì prima nel 1990, avevo 4 anni. Era ancora un ambientino alla Miami Vice, era una città più pericolosa. Quando andavo alle elementari non potevo scendere dalla macchina ogni volta che mi pareva, non ci si poteva fermare a tutti i distributori di benzina ma solo sceglierne alcuni. La Miami con le paillettes è venuta dopo. Era tutto più vero. Afroamericani, centroamericani, un mischione culturale che si sentiva anche negli odori. In classe di bimbi caucasici wasp forse ce ne erano tre.
Ed ecco che sbuca l’Italia…
Facevamo la spola. I miei l’amavano. In pianta stabile a Roma ho fatto il liceo. Un periodo bellissimo. Avevo il mio quartiere, il motorino, un’adolescenza degna di tale nome, molto Roma nord, il romanzo di Moccia era una serie di fotocopie passate sottobanco, il ponte di corso Francia il posto dove gridavamo la disperazione per gli amori mancati.
Sono commosso.
È la quarantena…
La scintilla del giornalismo quando è nata?
Mia mamma era giornalista. Avevo rifiutato di seguire le sue orme, ma ancor meno quelle di mio padre dentista. All’università scelsi economia aziendale. Una scelta sulla quale tutt’oggi mi interrogo. Non essendo nemmeno buona a far di conto. Cosa volessi dimostrare non mi è chiarissimo. Mi sono laureata con lode. Ci tengo a dirlo. Mi ero convinta che avrei lavorato come manager in una multinazionale.
Tra il dire e il fare c’è di mezzo la CNN…
Volevo iniziare subito a lavorare, fare cose concrete. Cinque anni di classico era stati tanti per me. Volevo passare dall’aoristo allo stage. Sulla bacheca degli annunci dell’università (io ho fatto l’università americana a Roma) cercavano stagisti bilingue per una redazione internazionale e all’ultimo anno dell’indirizzo di scienze politiche. Io facevo economia ma li ho chiamati. “Hallo, CNN Rome”. A quel punto ho riattaccato.
Fantozzi è lei?
Mia madre era membro della stampa estera, mi incentivò. Ci tornai. La prima scrematura: sei disposta a lavorare tutta l’estate senza retribuzione e orari? Avevo 19 anni era l’anno dei Mondiali vinti del 2006. Un’estate splendida. Mi chiesero se sapevo davvero cinque lingue. Italiano, francese, inglese, spagnolo, serbo-croato. Mia mamma è di Sarajevo. Ho fatto l’asilo a Belgrado. Imparai a scrivere cirillico.
Poi sono arrivati i lavori giornalistici a La7, in Rai a Mediaset…
Fino a quando i Gialappa’s hanno rovinato tutto. Un Pulitzer mancato per colpa loro.
All’entrata della CNN c’è il busto di Peter Arnett?
Il loro ufficio era sopra al mondo Rai. A Prati, duecento metri scarsi dal cavallo di Viale Mazzini. Sopra al celebre bar Vanni. Dove fino agli anni duemila l’80% di trattative Rai si sono consumate lì, con starlette che portavano book fotografici ai dirigenti. Essendo stagista portavo caffè. Il mondo Vanni lo conoscevo benissimo. Ricordo ancora i tipi di caffè dei miei superiori. Il mondo Rai al Vanni mi sembrava lunare rispetto al mondo anglosassone della CNN. Poi sono finita nella morsa anch’io. E nemmeno mi sono seduta da Vanni.
Qualche scelta che non rifaresti nella tua carriera?
Non mi sono mai spezzata l’osso del collo. Non solo rifarei tutto ma nutro nostalgia per tante esperienze. La vita dell’inviato ad esempio. A La7 facevo in media 52 trasferte l’anno. Calcolai che dormivo più notti fuori che in casa mia. Avevo un cuscino nella 48ore. Un cuscino basso che arrotolavo ogni volta. Se non dormivo su quello non ce la facevo. Sono una persona stanziale e soffrivo i trasferimenti, ma rifarei tutto.
Come fate a trovare questa incredibile alchimia in studio a Quelli che il calcio? Sembra il palleggio del Barcellona di Messi…
Ci lavoriamo da un po’. Luca e Paolo sono un duo affiatato. All’inizio mi sentivo come entrare nel letto di due coniugi. Stare lì come un terzo incomodo tra loro. Dietro le quinte comunque non lasciano cadere una battuta, sono sodali.
Sembra che la Serie A possa ripartire dopo il 4 maggio…
Mi sembra ci siano punti un po’ ostici da chiarire. Rende alcuni club un po’ fragili rispetto ad altri. Però ci dobbiamo abituare. È un tema che ci porteremo avanti per un po’. Ho la sensazione che il Coronavirus cambierà le nostre vite in maniera permanente. Come con l’HIV. Prima i preservativi non si usavano.
Ipotizzi una mancanza di “contatto” fisico per mesi o anni?
Avere quindici anni oggi ed essere chiusi in casa deve essere un dramma. Come essere single. Io tutti i giorni chiamo gli anziani a me cari e poi comincio con il giro degli amici single per tenere compagnia.
Dicevamo dei tamponi per tutti per far ripartire il calcio…
Comunque io me lo auguro. Se riuscissero a trovare un modo di farlo in sicurezza darebbe un senso di ripartenza e chiusura di un ciclo. Concluderlo avrebbe valore simbolico. Ci saranno mille polemiche tra chi è tornato con più cazzimma o meno, ma come messaggio sarebbe positivo. Se trovano quadra per una cosa così complicata, la si deve trovare anche, che so, per la scuola.
Uomini al lavoro e donne a casa a fare le mamme. Il ritorno degli anni Cinquanta.
È agghiacciante. La premessa è d’obbligo. Non siamo scienziati, non conosciamo bene il rischio. Oggi leggevo come hanno fatto in Svezia. Sei bimbi per classi, niente giochi (non riescono a igienizzarli ogni volta), sembrerà un po’ punitivo, ma starei attenta a paesi che lo fanno per imparare qualcosa. La mancanza di un luogo fisico per queste povere creature è una tragedia a livello di socializzazione. I figli di amici fanno sogni sul virus e sul desiderio di potersi abbracciare. Le istituzioni non possono sempre dire in conferenza stampa “bisogna trovare delle soluzioni”, loro di soluzioni ne devono offrire di possibili.
Dal tuo profilo Instagram va svelato un mistero. Hai il sistema di riscaldamento sotto al pavimento? In foto sei sempre a piedi nudi…
Amo girare scalza. A volte però mi pento dopo aver spostato una foto. Una certa fetta di pubblico un po’ m’inquieta. Comunque i commenti di natura estetica non mi turbano. È un profilo variegato dove posso metterti una foto di me che faccio pulizie e una di me dove come avete scritto su Kitikaka indosso la “bat felpa e il tacco fetish”. I social restituiscono anche un po’ di umanità. È un posto dove paga molto essere sé stessi. Personaggi molto costruiti funzionano poco. Anche chi fa grandi numeri, dalla Ferragni in poi, mostrano lati di sé. Non sarebbero in quest’arena se non ci fosse un po’ di verità. Ci sono anche maliziose colleghe che pubblicano foto sui pedi nudi. Oramai vale tutto.
Un esperimento per far morire d’invidia i lettori. Ti faccio alcune domande di cultura spicciola e tu mi rispondi in lingua madre. Loro non possono sentire, ma io sì. Chi ti segue sa dell’emozione di cui stiamo parlando. Lo stato americano con capitale Boston?
Massachussets
Lo stato del Canada occidentale senza frontiere naturali?
Sasktchewan
Julie Andrews che canta la parola più lunga al mondo in Mary Poppins?
Supercalifragilisticexpialidocious.
Grazie Mia, abbiamo finito.
Se butta male potrei postare questi tutorial audio su Instagram. Ci devo pensare e chiamarti come autore.