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di Monica Valendino
La Lega di Seria A, guarda guarda, si ricompatta non appena che dopo i veri padroni del calcio (le tv capitanate da Sky) hanno inviato un messaggio chiaro sui pagamenti che verrebbero meno se non si finisse il campionato. E così tutti sull’attenti. Compresi i club (vedi Brescia o Udinese) che fino al giorno prima volevano fermare tutto, chissà forse per evidenti vantaggi di classifica. Che tristezza, se non fosse una tragedia che rischia di finire in farsa.
In sintesi la Serie A vuole finire il campionato. Alla faccia del contagio, dei rischi, del fatto che l’immagine che si darebbe ai cittadini ancora privati di molte libertà di stare assieme sarebbe quanto meno inopportuna, del fatto che mentre altri spettacoli saranno costretti a chiusura a tempo indeterminato perché impossibile prevedere, ad esempio, concerti o teatri con persone assieme sul palco, ecco che il pallone gonfiato parla a sproposito, individuando un protocollo che favorirebbe la ripresa a suo dire.
Un protocollo che nessun medico vuole però portare davanti a un ministro, Spadafora (coadiuvato da Speranza), il quale sa bene che impatto sociale avrebbe far ripartire attività di secondo piano rispetto ai sacrifici che la gente comune deve fare ancora per chissà quanto tempo.
Inutile affermare che il calcio è un’industria, per cui come per le altre del Paese valgono le norme che il governo esprimerà per il 4 maggio. Chiamare industria il calcio è solo una formalità, perché è un gioco e rimane tale, alla pari di altri sport di squadra che hanno già deciso lo stop totale per questa stagione. Ma il calcio, vittima dei suoi debiti e dei suoi bilanci truccati più del visagista delle dive, non vuole saperne, aiutato anche da organi di stampa e televisioni che con esso hanno speculato, portando il tutto a creare una bolla che sta per esplodere.
Il fatturato è vero che produce 4,7 miliardi di euro che corrisponde al 12% del Pil del football mondiale. Ma di questi miliardi la maggior parte finisce nelle tasche di giocatori, dirigenti, società spesso con sede fiscale all’estero, agenti e sponsor. Il resto, le briciole, vanno agli altri lavoratori che vi fanno parte (vedi per esempio magazzinieri) che attualmente sono in cassa integrazione per lo più. A loro i club non sembrano pensare, però.
Ripartire significherebbe produrre problemi di sicurezza. Hai voglia a parlare di test sui giocatori a spese dei club (ovvio, ma comunque sarebbero sparsi e toglierebbero risorse a ospedali che attualmente faticano a produrli per i pazienti “comuni”). Hai voglia a parlare di sicurezza negli allenamenti quando un cittadino non può nemmeno andare a correre con un amico. Hai voglia a dire che in campo si manterrebbero le distanze di sicurezza, a meno che non si voglia far marcare l’avversario a due metri di distanza. Hai voglia a parlare di ritiri dorati a tempo indeterminato, quando una persona fatica ad andare a trovare anche solo un parente o un amico in ospedale.
Il calcio e chi lo sponsorizza adesso si sta macchiando di ridicolo. Riprendere sarebbe come rivivere la finale tra Juve e Liverpool dell’Heysel. Dopo 39 morti la sceneggiata in campo, con tanto di festeggiamenti finali. Un’immagine indelebile che dovrebbe far riflettere ancora oggi. Giocare sarebbe venire meno ai migliaia di morti, ai malati, a chi ha sofferto e soffre, a chi ha perso il lavoro e di certo l’ultima cosa a cui pensa oggi è rifare un abbonamento alla tv per vedersi una partita a carissimo prezzo.
Il pallone è gonfiato a dismisura come i suoi padroni, inutile dire che non vogliono sentirsi privilegiati. Questo virus forse potrà produrre uno sport più a misura d’uomo, senza eccessi. L’occasione è importante per fare un passo indietro, non per farne uno verso un ulteriore baratro.