Società

Il coronavirus ha cambiato il nostro linguaggio, ma è con le parole che prende forma il futuro

Le parole sono importanti, in tempi tranquilli e difficili. I pensieri, i progetti, il futuro prendono forma e si sostanziano attraverso le parole. Le parole che si scelgono per nominare e descrivere gli eventi, i fenomeni ci aiutano a capirli o a non capirli correttamente. Scegliendo parole imprecise si dà sfogo a sentimenti, decisioni e azioni che non dovrebbero trovare spazio. A partire da questo, con Clara Letizia Riccio, giovane giornalista pubblicista, abbiamo messo giù quanto segue. Almeno per avere una bussola in questi tempi, la ringrazio per darmi sempre un punto di vista.

Infermieri in trincea, medici in prima linea, dobbiamo combattere contro il virus, bisogna sconfiggere il virus. Piani economici di emergenza, è d’uopo installare un’applicazione che monitori ogni spostamento; un elicottero della guardia di finanza, talvolta, insegue un uomo che ha commesso l’esecrabile peccato di passeggiare su una spiaggia; qualche estemporaneo paladino della giustizia minaccia di ricorrere ai lanciafiamme.

No, non è un romanzo di George Orwell, non una torva distopia di Ray Bradbury o Aldous Huxley; è l’inquietante sonno della ragione che pervade la tuttologia della comunicazione, che si infiltra in una cupa quotidianità.

Il linguaggio costruisce le parole, le parole fabbricano il pensiero. E il modus cogitandi di oggi si inerpica sull’esasperato solipsismo di un vocabolario bellico, a tratti aberrante. Il germe della guerra è stato iniettato in ognuno di noi ed è l’unico, stavolta per davvero, ad aver assunto l’aspetto più virale (e contagioso) possibile. Percepiamo il nostro simile come un nemico da cui “distanziarci socialmente”, contro il quale utilizzare la macabra arma della diffidenza; idolatriamo lo Stato di polizia, non vorremmo altro che militarizzare ogni cosa.

Siamo morbosamente attratti da una belligeranza, che crediamo di ossequiare semplicemente stando in pigiama, profondendoci nell’illusoria dimensione dello smart working, rimpinzandoci di pranzi e cene luculliane (e non sia mai a non fotografarli e condividerli sui social!), genuflettendoci, adoranti, alla liturgica autocrazia della scienza, trionfante tiranna su tutta l’informazione.

I nostri schermi sono invasi (o invasati?) da virologi caratterizzati da personalità bi/tripolari, con latenti, e nemmeno tanto, complessi narcisistici, che millantano amorfe teorie da dilettanti come verità ieratiche, per poi smentirsi pochi millesimi di secondo dopo. E guai a contraddirli, il loro verbo è verbo sacro; del resto, è stato in grado di soppiantare quell’inutile cosa che, se memoria non mi tradisce, si chiama “libertà di parola”.

Persino il potere legislativo si è smarrito; il virus si divide in tanti ceppi, lui ha deciso di suddividersi in tanti Dpcm, pavoneggianti chimeriche promesse, guarda caso non bellicose, in ragion delle quali “il domani sarà sempre meglio”. Peccato che il domani preveda questa tanto decantata “fase 2”, eppure il numero di morti dondola sempre tra le stesse cifre.

La verità è che siamo tutti inconsapevoli, tutti imbrigliati in una valanga di ottenebranti notizie, che non fanno altro che distogliere l’attenzione dal vero e autentico problema: il nemico non è il virus, ma l’intorpidimento sociale ed economico che ne seguirà.

Nuoteremo tutti in un oceano grigio, come il colore delle mascherine che saremo costretti ad indossare, quasi ad omaggiare un’agghiacciante forma di anonimato; tutti in balia di uno spietato autoritarismo che si maschera da apprensiva protezione. Benvenuti nel magico mondo del sacrificio delle libertà.

“Atene fu distrutta dalla paura della peste, non dalla peste” – Tucidide