Quando tutto questo si sarà concluso – e tutti auspichiamo che sia il prima possibile – quel che rimarrà sarà la memoria delle poche menti lucide che avranno saputo arginare il terrore sul ponte della nave che affondava, indicando la via della salvezza e dando un esempio di equilibrio e raziocinio, puntando all’interesse della comunità nazionale e non di interessi locali.

Il virus ha dimostrato di non sapere cosa sia un confine o un punto cardinale. Sembra aver colpito di più dove è riuscito ad arrivare senza lasciare il tempo per prendere le precauzioni necessarie, nei modi e nelle forme che ci verranno spiegate dagli studiosi del campo, quando usciremo dalla pandemia. Non rimarranno, annegando tra i marosi dell’oblio, le polemiche campanilistiche, le rivendicazioni improduttive e gli accenti razzisti che purtroppo trovano spazio mediatico soprattutto nei momenti più dolorosi, per solleticare la pancia di fette più o meno consistenti di elettorato che, ieri come oggi, cercano un capro espiatorio, da un balcone come da un profilo di social network.

La nave che affonda è chiaramente quella della hybris dell’uomo moderno, che ha applicato senza freni le leggi del mercato a tutti gli ambiti, incluse le questioni fondamentali, che attengono ai diritti di base e ai rapporti tra i sapiens nella società del nostro tempo.

Ce l’ha ricordato, qualche settimana, fa il costituzionalista Sabino Cassese, in un’intervista al Messaggero, che è il caso di citare: “Il servizio sanitario è definito nazionale perché deve avere una organizzazione e un funzionamento uniforme sul territorio. Il diritto alla salute non cambia se si passa dalla Lombardia alla Sicilia. Quindi, finita questa vicenda, bisognerà trasferire il servizio allo Stato, o a una guida centrale assicurata da un organo composito Stato-regioni, ma che parli con una voce sola. È questa una proposta da tempo affacciata, che tiene conto anche del fatto che dopo il 1970 alle Regioni (a statuto ordinario, nda) sono state assegnate troppe funzioni, che svolgono con notevole affanno”.

Saliamo a un livello più generale: le questioni che attengono ai Diritti e Doveri dei Cittadini, ossia alla Parte Prima della Costituzione, segnatamente salute (art. 32), istruzione, università (artt. 33-34), non possono e non devono essere oggetto di delega o equivoci derivanti dai confini mobili della legislazione concorrente. Ciò ancor di più vale per la ricerca scientifica, promossa dalla Repubblica già nell’art. 9, ossia nell’ambito dei Principi Fondamentali. E proprio in questi giorni capiamo perché senza bisogno di ulteriori commenti.

Dopo anni di tagli su sanità, università e ricerca, ci siamo ritrovati in questa tempesta nella piena consapevolezza che la salvezza proviene proprio da quei settori, sottoposti a lustri di vacche magre. Eppure, le nostre scuole e università, in pochi giorni, si sono riconvertite per offrire agli studenti gli strumenti per affrontare questo periodo nel modo meno traumatico possibile. Hanno dimostrato resilienza, con gli strumenti a loro disposizione. In questa fase, non andrà dimenticato che anche i docenti e i ricercatori precari hanno dato un sostegno concreto, non lesinando impegno e sforzi.

Una riflessione ulteriore merita la diffusa impreparazione ad ascoltare un dibattito scientifico, a discernere una notizia falsa da una attendibile, a distinguere una dichiarazione di uno scienziato (più o meno illustre) da un risultato scientifico oggetto di pubblicazione su una rivista scientifica internazionale, che pubblica i risultati di ricerche dopo processi di seria revisione su tesi, aspetti metodologici, riferimenti e risultati. Mentre altre riviste pubblicano qualsiasi studio, dietro pagamento e hanno impatto scientifico decisamente non confrontabile con le prime.

Non solo stiamo prendendo sempre più consapevolezza circa la necessità di foraggiare (almeno quanto gli altri paesi europei) questi settori fondamentali in modo omogeneo su tutto il territorio nazionale, ma anche sull’esigenza di un dialogo adulto e capillare tra scienza e popolazione. In un celebre discorso ai laureandi, lo scrittore David Foster Wallace diceva che “il mantra delle scienze umanistiche – ‘insegnami a pensare’ – in parte dovrebbe significare proprio questo: essere un po’ meno arrogante, avere un minimo di consapevolezza critica riguardo a me stesso e alle mie certezze… perché un’enorme percentuale delle cose di cui tendo a essere automaticamente certo risultano, a ben vedere, del tutto erronee e illusorie”.

A questo processo critico si può e si deve dedicare una vita. Ma se non cade la tara dell’arroganza, da parte di chi divulga, come da parte di chi riceve le informazioni, quel dialogo sereno e maturo non si creerà mai. È giusto che si capisca che la scienza avanza con grande sacrificio e studio di persone che hanno dedicato la propria vita all’approfondimento e allo studio, all’approccio sperimentale. E questo esige rispetto da parte di chi si approcci a un tema per la prima volta, con una ricerca su Google o Wikipedia.

Dall’altra parte, nel mondo scientifico, deve maturare più consapevolezza sulla necessità della collaborazione tra i gruppi di ricerca, non sempre favorita da logiche di distribuzione delle risorse che alimentano la competizione più che la collaborazione. Se questa catastrofe ci lascerà più maturi, da questi punti di vista, il dolore che sta arrecando sarà meno vano.

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