È iniziato, questa volta per davvero, il processo di scelta della vice che affiancherà Joe Biden a novembre. Dopo settimane di voci, ipotesi, proposte, il gruppo che si occupa di selezionare le candidate ha cominciato a valutare i curricula. Una sola cosa è certa: come running mate, Biden avrà una donna – l’ha annunciato lui stesso a metà marzo. Per il resto, molto dipenderà dalla direzione che prenderà la campagna democratica. In altre parole, il profilo della vice cambia se ci si vuole concentrare sugli elettori del Midwest; se si preferisce recuperare ampi settori del voto progressista; o ancora se diventa prioritario l’elettorato afro-americano.
“Sceglierei Michelle Obama in un attimo”, ha scherzato Biden in un’intervista, sapendo molto bene che l’ex First Lady non è interessata alla posizione. Non è uno scherzo invece la selezione della sua vice, che promette di influenzare molto della campagna elettorale e, nel caso Biden diventasse presidente, anche i prossimi quattro anni dell’amministrazione. Per un candidato che entrerebbe alla Casa Bianca a 78 anni, una vice relativamente giovane, attiva, visibile sulla scena nazionale e internazionale è una necessità. Biden e i democratici lo sanno e per questo stanno dedicando particolare attenzione alla questione.
Di quattro cose ha particolare bisogno il candidato democratico nello scegliere la sua running mate. La prima: rafforzare la sua posizione in quegli Stati dove appare più debole. La seconda: recuperare il voto ispanico, che non ha mostrato particolare simpatia per Biden nella fase delle primarie. La terza: generare entusiasmo tra i più giovani, la fascia d’età che va dai 18 ai 24, che proprio durante le primarie ha costantemente snobbato l’ex vice-presidente. La quarta: generare fiducia, partecipazione, entusiasmo in settori più ampi dell’elettorato democratico, soprattutto afro-americani e progressisti. Biden ha un’immagine consumata da cinquant’anni ai vertici della politica americana. Deve mostrare di essere il futuro e non soltanto il passato. Una buona vice può aiutarlo nella (difficile) impresa.
Da queste quattro condizioni, dipendono quindi le scelte delle prossime settimane. Se per esempio si privilegiasse il primo punto, potrebbero diventare interessanti le candidature di Amy Klobuchar, Gretchen Whitmer e Tammy Baldwin. La prima è senatrice del Minnesota (ed ex agguerrita candidata presidenziale), la seconda è governatrice del Michigan e la terza senatrice del Wisconsin. Le tre potrebbero essere una buona scelta nel caso si decidesse di rafforzare la campagna democratica nel Midwest industriale, cercando di recuperare quell’elettorato middle e working-class che nel 2016 ha scelto Donald Trump.
Tutte e tre hanno dei punti di forza ma anche dei limiti. Il messaggio di Klobuchar si rivolge alla classe media degli Stati del Midwest. Whitmer è una delle più scatenate oppositrici di Trump e Baldwin, la prima lesbica dichiarata nella storia del Senato, ha una storia importante di battaglie progressiste. Ci sono però appunto i limiti. Klobuchar è una centrista che non piace alla sinistra del partito. Le tre sono hanno poi un profilo molto “bianco” e Midwestern, difficilmente spendibile se si vuole mobilitare il voto nero. Teniamo infatti presente che l’elettorato afro-americano non è determinante soltanto negli Stati del Sud; è numeroso in città come Detroit, Milwaukee, Philadelphia. Una forte affluenza di afro-americani alle urne il 3 novembre è essenziale se si vuole recuperare il “Blue Wall”, il muro degli Stati democratici del Michigan, Wisconsin, Pennsylvania che nel 2016 Trump ha conquistato per un soffio (e allora, nelle tre città, l’affluenza al voto dei neri fu bassa).
La questione del voto nero, a novembre, non può del resto essere sottostimata. È fondamentale. È vero che Joe Biden durante le primarie ha conquistato una larga fetta di questo elettorato. Ma è anche vero che chi vota alle primarie non è chi vota alle elezioni generali. In altre parole: il 3 novembre i democratici hanno bisogno di portare alle urne molti più afro-americani di quanti abbiano partecipato alle primarie in questi mesi. In quest’ottica, una buona scelta potrebbe essere Kemala Harris. Padre giamaicano, madre indiana, senatrice della California, anch’essa combattiva candidata alle presidenziali, Harris ha buone chance tra le minoranze. In fondo, il momento forse più forte di tutta la sua campagna per la presidenza è venuto quando Harris ha spiegato di essere stata una bambina “bused to school every day”, condotta ogni giorno nelle scuole desegregate. Anche Harris ha però dei limiti. Non ha un buon rapporto personale con Biden e con la moglie di Biden, Jill. Soprattutto, non sembra la candidata giusta se si vuole recuperare il voto di giovani e progressisti. Come Attorney General della California, Harris ha allargato i poteri della polizia, si è battuta contro la marjuana, ha lasciato in galera persone palesemente innocenti. Non è esattamente il curriculum in grado di suscitare l’entusiasmo della sinistra.
Un altro criterio che Biden e i suoi potrebbero voler seguire, nella scelta della vice, è quello del voto ispanico. Gli ispanici sono il gruppo non-bianco più numeroso degli Stati Uniti e rappresentano una fetta importante della popolazione in Stati duramente contesi a novembre: Texas, Arizona, per non parlare della Florida. Come detto, Biden appare particolarmente debole tra gli ispanici. Una scelta intelligente potrebbe così rivelarsi la senatrice del Nevada Catherine Cortez-Masto. O anche la governatrice del New Mexico, Michelle Lujan Grisham. Alcuni fanno però presente il risvolto della medaglia. Le due hanno un radicamento molto locale e scarsa visibilità nazionale. Non sarebbero capaci di offrire a Biden quello scatto d’entusiasmo che gli è assolutamente necessario per ricreare la coalizione – minoranze, borghesia urbana, giovani, parte della working-class del Midwest – che permise a Obama di vincere nel 2008 e ancora nel 2012.
Altra candidata di cui si fa spesso il nome in questi giorni è quello di Elizabeth Warren. La senatrice del Massachusetts ha già fatto sapere di essere pronta ad accettare l’offerta, nel caso Biden decidesse per lei. La scelta di Warren ha molti punti di forza: durante le primarie, la senatrice ha costruito un movimento compatto di milioni e milioni di persone; ha una fisionomia apertamente progressista; per le sue doti intellettuali appare perfetta per innervare di proposte la politica democratica dei prossimi quattro anni. Manco a dirlo, anche Warren ha pesanti punti deboli. Non piace a tutti i progressisti: una buona parte del popolo di Bernie Sanders la odia e accusa di essere stata sleale nella fase delle primarie. Anche Warren ha una fisionomia molto “bianca” e da East Coast; non sembra essere la scelta più giusta per parlare ad afro-americani e classe lavoratrice del Midwest. Senza contare che Warren ha 70 anni. Se si vuole “ringiovanire” il ticket presidenziale democratico, è un po’ difficile rivolgersi a lei.
Come si vede, la scelta della vice di Biden è e sarà un compito arduo, in cui i punti a sfavore spesso annullano i vantaggi e in cui i pezzi del puzzle si scompongono e ricompongono continuamente. Tra tutti i nomi che girano in questi giorni, uno potrebbe allora (forse) mettere d’accordo tutti. Quello di Stacey Abrams, l’ex deputata nera protagonista di un’entusiasmante campagna che nel 2018 l’ha portata vicina a conquistare la carica di governatrice della Georgia. Abrams sembra possedere tutti i tasselli che abbiamo considerato sinora. Ha una straordinaria capacità di mobilitazione del voto nero: in Georgia, nel 2018, l’affluenza degli afro-americani alle urne è cresciuta del 40 per cento rispetto alle presidenziali del 2016. È un elemento che accresce le speranze dei democratici non soltanto negli Stati del Midwest, ma anche in Georgia, North Carolina, Florida, Texas. Abrams è stata anche capace di vincere il 62 per cento del voto ispanico alle elezioni in Georgia del 2018: altro buon segno, per lei. Adorata negli ambienti progressisti, a 47 anni appare perfetta per suscitare quell’entusiasmo, soprattutto tra i più giovani, di cui Biden ha disperatamente bisogno. Anche qui vale la pena di citare un numero. Alle elezioni per governatore, Abrams è riuscita a superare di oltre 30 punti i consensi che Barack Obama ottenne nel 2012 nella fascia di elettori tra i 18 e i 29 anni.
Stacey Abrams è quindi, al momento, la candidata che riesce a soddisfare più esigenze e mettere d’accordo il variegato e spesso conflittuale mondo democratico. Ma nulla è deciso, niente è sicuro: le sorprese sono possibili e molto dipenderà da quale tipo di campagna Joe Biden vuole impostare.