“Ho molta esperienza e diverse qualifiche, ma non sono mai stata messa in regola da nessuno. E ora la pandemia mi ha veramente rovinata”. Stefania, 53 anni, vive a Latina e lavora come assistente domiciliare a ore da quasi 16 anni. In nero, da sempre, come capita a oltre un milione di lavoratori domestici in Italia. Invisibili tra gli invisibili che l’emergenza ha messo in ginocchio: con il terrore che il virus si introduca nelle case, e con le famiglie in quarantena che hanno più tempo a disposizione per sbrigare le faccende domestiche, migliaia di colf e badanti sono state messe alla porta. Anche quelle con un contratto: secondo una stima di Assindatcolf, solo nei primi 15 giorni di aprile i licenziamenti sono cresciuti del 30% rispetto allo stesso mese dell’anno scorso. “Il decreto Cura Italia si è dimenticato di questi lavoratori”, dice Giamaica Puntillo, segretaria nazionale di Acli Colf. “Niente bonus, come previsto ad esempio per le baby-sitter, e niente cassa integrazione”. E mentre il governo tenta di rimediare ipotizzando misure per tutelare la categoria, tra cui un indennizzo fino a 600 euro che potrebbe essere inserito nel decreto Aprile, rimane l’enorme problema di chi lavora in nero: “Senza un contratto lavorare è impossibile, perché se mi fermano non posso giustificare la mia uscita”, continua Stefania. “Sono a casa da quattro settimane, tra poco non sarò più in grado di mantenere la mia famiglia”. Una situazione, quella di chi lavora in nero e di chi è irregolare, che l’esecutivo sta valutando di risolvere con misure ad hoc. Che al momento, però, non ci sono.
Se per chi è senza contratto rimane la speranza di poter usufruire del reddito di emergenza, un’ipotesi che il governo ipotizza appunto anche per chi fino a questo momento ha lavorato in nero, sembra invece non esserci soluzione per i 200mila lavoratori del settore che non hanno nemmeno il permesso di soggiorno: “Gli irregolari si sono trovati in pochi giorni senza casa e senza reddito”, spiega Sara Gomez, della Filcams Cgil del Lazio. “Chi non ha il permesso di soggiorno non ha diritto neanche ai bonus per fare la spesa. Queste persone sono letteralmente invisibili”. In questi giorni la stessa ministra dell’Interno Luciana Lamorgese ha aperto all’ipotesi di regolarizzare i lavoratori stranieri senza permesso di soggiorno, ma al momento non c’è niente di concreto oltre le intenzioni. I numeri dicono che oltre il 70% dei collaboratori domestici in Italia sono donne che vengono da altri Paesi. “Per loro perdere il lavoro in questa situazione di emergenza significa anche rimanere bloccate in Italia”, spiega Luciana Mastrocola, della Filcams Cgil nazionale. “Queste donne non hanno una rete famigliare su cui poter fare affidamento e rischiano di finire per strada. È un problema sociale drammatico”.
Ma gli effetti dell’epidemia non hanno risparmiato neanche gli 865mila lavoratori domestici regolari, per i quali le famiglie italiane spendono ogni anno quasi sette miliardi. Tre le colf, spesso impiegate a ore, i sindacati stanno registrando migliaia di sospensioni lavorative: “Per molte famiglie è venuta meno la necessità di pagare qualcuno per tenere in ordine la casa – continua Mastrocola – e molti temono che queste persone portino il virus in casa loro”. D’altra parte, per quasi due mesi, la responsabilità del mantenimento del rapporto di lavoro è stata scaricata sulle famiglie, che per quanto possibile hanno fatto ricorso a ferie e permessi: “In marzo ho dovuto chiedere un anticipo di retribuzione delle ferie perché l’emergenza mi impediva di svolgere il mio lavoro”, racconta Salvatorina, che a Torino si occupa da anni di un’anziana rimasta vedova. “Esauriti anche i giorni di ferie, da inizio aprile sono a casa senza stipendio. E non so quando potrò riprendere a lavorare, non posso mettere a rischio la signora da cui presto servizio”.
Per chi si trova ogni giorno a stretto contatto con gli anziani, infatti, oltre alla paura di infettarsi c’è anche quella di diventare veicolo del contagio. “Chi si prende cura di una persona non autosufficiente non può mettere in atto il distanziamento sociale”, sottolinea ancora Mastrocola. “I dispositivi minimi di sicurezza sono necessari, ma tante famiglie non li forniscono e lasciano ai lavoratori il compito di procurarseli”. E così anche per i collaboratori domestici salute e lavoro entrano in conflitto: “Ho tanta paura di ammalarmi e continuo a pensare che se perdo il lavoro finirò in mezzo alla strada, senza aiuti”, racconta Adriana, romena, che a Torino assiste una coppia di anziani. “Cerco di prendere più precauzioni possibili e spiego alla famiglia che dobbiamo collaborare per affrontare questa situazione, ma non so quanto potrò reggere senza un supporto”.
Nella crisi, per assurdo, c’è anche chi lavora troppo. Sono le badanti che forniscono assistenza 24 ore su 24, a cui le restrizioni alla mobilità hanno tolto anche le brevi pause settimanali. “Molte stanno lavorando da 40 giorni senza la possibilità di uscire per un momento di svago o per confrontarsi tra loro su come affrontare questa situazione”, spiega Wendy Galarza, della Cgil di Perugia. “Questo lavoro è complesso anche in tempi normali, ma l’emergenza sanitaria ha aumentato le responsabilità e la pressione psicologica che devono sopportare le badanti”. E poi ci sono le comprensibili paure dei famigliari, che chiedono conto di ogni spostamento. “La mia vita lavorativa prima del coronavirus era pesante, ma ora è davvero insostenibile”, dice Larisa, moldava, in italia dal 2004. Lavora a Torino, dove assiste una persona affetta da demenza senile. “Ogni giorno sento parlare di nuovi decreti del governo, ma non ho mai sentito nominare colf e badanti. Tutti, tranne noi, hanno diritto alla cassa integrazione. Questo fa male”. Larisa, come tante colleghe, ha partecipato negli ultimi anni a diversi corsi di formazione professionale. “Durante i corsi ci dicevano sempre che i lavoratori sono uguali, ma io tutta questa uguaglianza non la vedo proprio”.