La condizione di sovraffollamento delle carceri italiane costituisce oramai un elemento strutturale e tranquillamente accettato dalla cultura politica del nostro Paese radicatasi e radicalizzatasi negli ultimi decenni. A nulla sono valse le notissime sentenze di condanna pronunciate dalla Corte Europea dei diritti dell’Uomo. La sentenza Torreggiani per tutte. Al 1990 risale l’ultima amnistia, al 2006 l’ultimo indulto.
In tale contesto la politica italiana ha inseguito costantemente il consenso popolare giornaliero, stimolato da campagne mediatiche efficacissime nell’inoculare un senso diffuso e assolutamente sovrastimato di insicurezza rigorosamente circoscritto alla criminalità comune, unitamente alla narrazione sistematica di una vera e propria falsa emergenza, ad esso strettamente connessa.
Ecco quindi, di fronte ad ogni fatto di cronaca, il ripetersi dell’oramai famoso e largamente condiviso motto “In galera e buttiamo via le chiavi”.
Con buona pace della dimenticata funzione rieducativa della pena, il carcere è oramai concepito unicamente come luogo di punizione pura e semplice. Dimentichiamoci di voi che (vi) entrate. Il carcere come discarica di “rifiuti umani” senza diritti e dignità da riconoscere, ancor di meno da garantire.
Oggi vi sono stipati oltre 55mila detenuti a fronte di 47mila posti effettivi. Un posto effettivo sarebbe calcolato in 3 metri quadrati. Il busillis che i massimi sistemi giurisdizionali (Cassazione a Sezioni Unite) dovranno risolvere è se vanno calcolati con o senza mobilia. Lo scrive il prof. Andrea Pugiotto su Diritto Virale del Dipartimento di Giurisprudenza di Ferrara.
Del degrado della funzione istituzionale del nostro sistema carcerario rimangono vittime non solo i detenuti ma anche gli stessi agenti di polizia penitenziaria, che sono costretti ad operare in contesti difficilissimi e frustranti. Certo, non mancano le eccezioni, ma purtroppo esse rimangono tali.
Il malessere è profondo. Le condizioni di vita all’interno di numerosi istituti sono, per reclusi e agenti, difficilmente sopportabili. Non mancano gli episodi di violenza. Tra detenuti, di detenuti nei confronti degli agenti, di agenti nei confronti dei detenuti. Questi ultimi rarissimamente vengono perseguiti, quasi fosse una forma risarcitoria a favore dei primi per le difficilissime e spesso inumane condizioni di lavoro.
Rachid Assarag è un detenuto la cui storia può riassumere bene la situazione: vittima di pestaggi sistematici, è stato sballottato in una quindicina di istituti su tutto il territorio nazionale. Durante la sua detenzione è riuscito a registrare le voci di coloro che lo hanno pestato, di medici, infermieri, psicologi, che, per quieto vivere, si sono voltati dall’altra parte. A Firenze, a Prato e a Piacenza sono partiti i processi che lo vedono testimone principale. Ma lui non c’è. Nel frattempo è stato espulso e riaccompagnato nel suo paese d’origine nonostante sia legalmente sposato con una cittadina italiana. Le Questure non concedono il permesso di rientrare in Italia per testimoniare richiesto dai Pm. “È pericoloso”. Già.
In tutto questo ora abbiamo finalmente una emergenza vera e terrificante. La pandemia mondiale. Le carceri sono diventate un problema anche per coloro che ‘stanno fuori’. La situazione è ancor di più esplosiva. Scoppiano violentissime le rivolte. Ma soprattutto, per il cosiddetto comune sentire, possono diventare pericolosissimi focolai di infezione anche fuori dalle loro mura. Si ammalano detenuti e agenti, di nuovo accomunati dalla loro difficile condizione di vita. Talvolta gli uni contro gli altri, ma sempre nelle stesse comuni condizioni di rischio.
Gli appelli sempre più pressanti, quello del Papa su tutti, sembrano finalmente poter trovare ascolto. Il 21 marzo scorso il Dap invia una nota a tutti gli istituti penitenziari con la quale chiede loro, “per combattere il contagio” di “segnalare detenuti over 70 con malattie”. Lo scopo è quello di consentirne la detenzione domiciliare sottraendoli all’elevato rischio di gravi e infauste complicanze. Quelle tristemente note derivanti dall’infezione del Coronavirus.
Tra di loro vi sono anche famosi boss di mafia al 41 bis. Insorgono quindi anche magistrati di chiara fama, indignati. Nessuno si indigna sul perché le carceri siano in queste condizioni. La famosissima riforma Orlando sulla Giustizia qualcosa di veramente buono lo aveva: la riforma dell’ordinamento Penitenziario. È stata letteralmente pattumata (perdonatemi il termine poco tecnico) dalla politica. Si è preferito concentrare ogni energia per partorire le nuove discipline in tema di prescrizione e intercettazioni telefoniche.
Dagli stimabilissimi magistrati che occupano in questi giorni i palinsesti di numerosi talk show parlando di politica mi aspetterei qualche parola in più in materia di rispetto dei diritti umani e sulle condizioni delle nostre carceri. Sembra quasi che queste problematiche li trovino disinteressati. Freddi. Ho detto tutto.