Il 25 aprile 1945 il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia proclamò l’insurrezione generale contro il nazifascismo. Da allora, nella ricorrenza di quel giorno si celebra una festa nazionale. Settantacinque anni dopo, approfittando del fatto che siamo in balìa della pandemia di Covid-19, la destra italiana e gli ambienti neofascisti stanno provando di nuovo ad affossarla.

Ignazio Benito (che strano…) Maria La Russa – ministro della Difesa nel governo Berlusconi IV, tra i principali esponenti di Fratelli d’Italia, negli anni Settanta leader del Fronte della Gioventù, il movimento giovanile del MSI – ha chiesto di trasformare la celebrazione in una giornata in ricordo “delle vittime di tutte le guerre”, inclusa quella “contro il coronavirus”.

Il 23 aprile scorso, in articolo di apertura sul sito, il Secolo d’Italia – ex organo del Movimento sociale italiano e ora legato a Fratelli d’Italia, erede del Msi – ha ribadito il disappunto per la celebrazione dell’anniversario della Liberazione e, soprattutto, per la prevista deposizione (senza assembramenti) delle corone di fiori davanti a lapidi o monumenti dedicati alle persone uccise o deportate (guarda caso) dai nazifascisti. Queste “forme di celebrazione” sarebbero discriminanti e l’Anpi – definita “un’associazione che ha la sola funzione di fare propaganda ideologica” – godrebbe di privilegi. Tra l’altro, gli anti-25Aprile dimenticano che a quelle manifestazioni – svolte in misura ridottissima e con l’opportuno distanziamento – parteciperanno anche rappresentanti di istituzioni e Comuni.

Il Secolo ha poi suggerito di “sovrastare con l’’Inno di Mameli’ il canto di ‘Bella ciao’ dai balconi”. Al coro si sono uniti altri esponenti di FdI, secondo i quali la ricorrenza appare troppo “divisiva” in un periodo in cui sarebbe utile l’“unità nazionale”. Inoltre gli ultras neofascisti e neonazisti nostrani (più vari super-sovranisti e integralisti religiosi) hanno raccolto il testimone di La Russa, lanciando la campagna “Noi siamo popolo”, con alcune migliaia di adesioni: vogliono scendere nelle strade, per protestare, proprio il 25 aprile.

L’appello di La Russa mi ha fatto venire in mente che proprio lui il 21 aprile 2010, quando era ministro della Difesa, durante Porta a porta, sulla Rai, se la prese con gli Imi (gli Internati Militari Italiani). Sono stati i 650.000 soldati che, dopo l’8 settembre 1943 e la nascita della Repubblica mussoliniana di Salò, finirono nei campi di concentramento nazisti, con la “benedizione” dei fascisti, perché non avevano accettato di indossare le divise repubblichine. L’allora ministro disse che i nostri militari, catturati dai nazifascisti, avevano fatto “una scelta di comodo”, per non “rischiare la vita”. Così “di comodo” che più di 80.000 di quei soldati – protagonisti (con i partigiani e i soldati del Corpo italiano di Liberazione) della Resistenza contro Hitler e Mussolini – morirono di stenti o furono assassinati.

All’epoca, l’affermazione di La Russa mi scandalizzò (e scandalizzò tanti altri, come testimonia una lettera inviata al ministro dall’Associazione nazionale ex internati). Anche perché mio padre Pietro, classe 1921, era stato uno quegli internati. Mi raccontava che per lui – bambino, adolescente e giovane uomo – il fascismo, “cresciuto” negli stessi anni, era stato la normalità. Ricordava che da ragazzino, a La Spezia, quando lavorava in un negozio di abbigliamento indossava un camice nero da lavoro: quando il regime obbligava alle adunate nelle piazze, per fare prima lo infilava nei pantaloni, trasformandolo in una camicia nera. Le leggi razziali fasciste non lo colpirono troppo, anche perché a Spezia c’erano pochissimi italiani ebrei. E sembrava quasi verosimile – a un giovane di allora – che l’Italia fosse una “grande potenza”, con una “purezza” da proteggere e un’“eredità imperiale” da rivendicare.

Poi venne la guerra: lui e i suoi coetanei, ventenni, finirono tutti “abili e arruolati” e in gran parte non tornarono. Quando le armi tacquero – raccontava mio padre – cercò gli amici, gli ex compagni di scuola, e non ritrovò quasi nessuno. Nel frattempo per quasi due anni era stato prigioniero, con il fratello gemello Paolo, in Germania, come internato militare italiano. La realtà – dopo che la propaganda nazifascista era stata spianata da morti, sofferenze, fame e distruzioni – gli appariva un incubo. Anche perché ogni ora trascorsa nel campo di concentramento poteva essere l’ultima.

Un giorno in Germania, vicino a Lipsia, scoprì anche qual era stato il risultato delle leggi razziali: in mezzo alla neve, di ritorno nel suo campo dopo i lavori forzati, vide una colonna di uomini e donne macilenti e coperti di stracci, spinti da soldati tedeschi; chi rallentava o cadeva veniva ucciso e buttato sul cassone di un camion. Erano ebrei e altri candidati (rom, omosessuali, prigionieri politici, eccetera: più di 15 milioni le vittime) allo sterminio, cui il fascismo stava collaborando. Quando me lo raccontava, anche negli ultimi tempi della sua vita (se ne è andato a 83 anni nel 2004), non riusciva a non piangere. Tornò in Italia: pesava 45 chili, aveva una gamba spezzata, rimasta un po’ più corta per sempre, ma era vivo e persino innamorato: di una ragazza tedesca che non riuscì più a rivedere. Nel 1947 incontrò mia mamma – Lea Castellini – e fecero tre figli: Maurizia, io e Massimo.

Io me lo ricordo. E lo ricorderò a suo nipote Pietro (nato quasi un secolo dopo il nonno) che lo ricorderà, spero, ai suoi figli, un giorno. Perché la memoria è un dovere e anche un dono; tanto più in quest’epoca in cui divisioni, muri, paure propinate con premeditazione, nazionalismi e razzismi stanno diventando ancora gli slogan di leader politici senza scrupoli.

Quindi qualcuno deve rassegnarsi: durante la giornata di oggi , 25 aprile 2020, io e tanti altri ricorderemo la Liberazione dell’Italia dai nazifascisti; non c’è niente di “divisivo” nel farlo, se non nei confronti di chi guarda ancora agli anni del nazismo e del fascismo con qualche nostalgia. E canteremo “Bella ciao” dai balconi e dalle finestre, “caro” Ignazio Benito Maria. In attesa del ritorno nelle strade e nelle piazze, che non abbiamo alcuna intenzione di regalarvi.

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