Il dottor Giovanni Barbaglio, psicologo e psicoterapeuta originario della prima zona rossa d'Italia nel Basso, si occupa in particolare di fine vita. A ilfattoquotidiano.it spiega come questa situazione di emergenza avrà conseguenze psicologiche anche a lungo termine: "Lo choc ci ha fatto sentire tutti più deboli. C'è paura di ammalarsi e per la prima volta dagli anni '50 il timore che la sanità sia inadeguata"
Il Basso Lodigiano è stato la prima “zona rossa” istituita in Italia per fermare il contagio da Covid-19: un nemico inaspettato, sconosciuto, che ci ha obbligati a rivoluzionare le nostre vite, ma anche a cambiare il modo con cui ognuno di noi si rapporta alla morte. A rendersene conto per primi sono stati gli abitanti di questo territorio. Ed è proprio a Codogno, dove è stato diagnosticato il primo caso di Coronavirus in Italia, che lavora il dottor Giovanni Barbaglio. Psicologo e psicoterapeuta, Barbaglio, si occupa in particolare di fine vita: lavora da 15 anni in hospice, accompagna malati terminali e familiari nell’ultima, dolorosissima fase della malattia. E oggi, in questa difficoltosa e delicata situazione, ci spiega tutto il male che ci sta facendo il Coronavirus, non solo da un punto di vista sanitario, ma anche psicologico. A partire dalle modalità con cui ci ha costretti a dire addio ai nostri cari.
Quanto è grave l’assenza del rito funebre, imposta per motivi sanitari, nel dare l’addio ai morti da Covid-19?
I familiari delle vittime vengono messi in una specie di coma farmacologico: non possono affrontare la difficoltà del dolore del lutto, che solitamente si completa nel rito funebre, perché ora è stato completamente tolto. Il rito funebre è necessario perché solo in questo modo si può elaborare il lutto. Il percorso della malattia normalmente parte dalla scoperta, poi ci sono le prime difficoltà, l’impossibilità di guarigione, quindi l’accettazione e l’accompagnamento al fine vita: tenere la mano al proprio caro, avere la sensazione di aver fatto tutto il possibile. Così si inizia già ad elaborare.
Cosa ci ha tolto il Coronavirus, nel dolorosissimo percorso di addio?
Con il Coronavirus mancano tutti gli elementi necessari ad affrontare il lutto: tempo, comunicazione, presenza, consapevolezza. Primo: c’è la velocità, vengono a prendere il nostro caro che sta male a casa e lo portano via in ambulanza. Secondo: l’impossibilità della vicinanza, non siamo al suo fianco e ci arrivano poche comunicazioni dall’ospedale (solo quello che i sanitari, già in grave difficoltà per contrastare l’emergenza, riescono a fare). Terzo: il divieto del rito funebre. Il rito funebre dovrà essere ripreso in un secondo tempo: nelle messe, nelle urne cinerarie, in tutto quello che una famiglia può fare per ricordare in una precisa data il proprio familiare mancato. L’assenza del rito funebre rende il lutto ancora non elaborato e andrà recuperato. Io ho perso molti amici, perché qui a Codogno siamo stati martoriati da questo flagello, e mi pesa non poter essere andato al funerale o a portare un fiore sulla tomba di queste persone.
Qual è, nonostante le difficoltà, il miglior modo per poter superare il lutto?
La prima cosa sarebbe viverlo e questo non ci è dato. Perché viverlo è dare un senso a quel tempo sospeso, a quel dolore. Il rito è stato organizzato dalla società affinché il lutto fosse meno pungente; il rito aiuta nell’organizzazione del lutto, aiuta a dare un significato a quello che sta avvenendo. Oggi facciamo fatica a dare senso e significato sia alla situazione, che al nostro lutto. Facciamo fatica a comprendere il nuovo contesto in cui siamo completamente immersi: cosa è successo, cosa sta succedendo e cosa succederà. Un consiglio che vale per tutti non c’è, ci sono bisogni specifici di una persona o di un nucleo familiare: bisogni religiosi, spirituali, che riguardano la scala di valori soggettiva delle singola persone, e anche di chi è mancato. Per esempio si potrebbero rispettare le scale di valori che il mio caro aveva, in sua memoria.
Come è stata vissuta l’emergenza nella prima zona rossa, quella del Basso Lodigiano?
Alla fine del 2019 ci erano arrivate le prime notizie sul Coronavirus: ma arrivavano da lontano, dall’altra parte del mondo. Alzarsi la mattina del 21 febbraio e sapere che a Codogno, a casa nostra, c’era il primo contagiato di Covid-19 è stato uno shock. Ci siamo scoperti più deboli. C’è stata e c’è ancora la paura di ammalarsi. E che non ci siano gli strumenti per guarirci. Ma c’è anche la paura di affrontare una sanità che per la prima volta in Italia, possiamo dire dagli anni ‘50, appare inadeguata. Perché se oggi parliamo di ospedali da campo, di personale medico che arriva da Paesi che fino a qualche tempo fa consideravamo del terzo mondo, questo vuol dire che qualcosa è cambiato.
Quali sono le tipologie di richieste di assistenza che hai ricevuto in questo periodo?
I pazienti mi parlano di reclusione, isolamento, paura del virus che possa toccare la propria famiglia, paura di perdere i propri cari: devo dire poca preoccupazione per se stessi ma molta verso genitori, o comunque familiari più anziani. Mi chiamano le persone e mi dicono che stanno dimettendo un loro familiare e lo mettono nell’ospedale da campo, sulla brandina. E’ difficile accettare che il nostro caro, ottantenne, viva questa situazione. E’ già questo un lutto. Un lutto sulla forza di una sanità, che fino a due mesi fa, pur con difficoltà e limiti, non sempre salvavita, ci dava comunque una dignità che in questa pandemia ci è stata tolta. E’ una situazione vissuta da molti solo sui libri di storia, con la Seconda Guerra Mondiale, e che si è conclusa con l’inizio degli anni Cinquanta. Chi, come me, è nato negli anni ‘70 o dopo, ha conosciuto solo una realtà italiana fatta di benessere, ricchezza diffusa, ospedali nel territorio. Il facile accesso a vaccini, cibo, supermercati, salute. Oggi, soprattutto nella prima zona rossa, abbiamo sperimentato anche la difficoltà di arrivare all’approvvigionamento del cibo.
Il termine “guerra” viene spesso associato a quello che stiamo vivendo. Lo ritiene corretto?
Quello che stiamo vivendo somiglia molto alla guerra perché ci sono i morti, ci sono gli ospedali da campo, ci sono anche dei disturbi psicologici che assomigliano a quelli della guerra. Ma sono un po’ diversi. In questo caso un disturbo post traumatico da stress, il fragore della bomba, non c’è. Ma per molti ci sono le sirene delle ambulanze, incessanti. All’inizio molte persone mi chiamavano perché si sentivano disorientate, per uno stato di ansia mal gestito: non capivano cosa stesse succedendo. Ma la maggior ansia, non automaticamente la depressione, colpirà i soggetti dopo. Di solito si diventa più forti durante la calamità. Adesso migliaia di medici, infermieri, operatori sanitari sono nel turbinio della situazione. Io ci parlo tutti i giorni: sono sotto stress e in difficoltà, ma corrono perché c’è l’emergenza. La mia ipotesi è che il bisogno di un sostegno psicologico arriverà in un secondo tempo, quando la situazione migliorerà e si ripenserà a tutto.
Pazienti già in cura per altri motivi sono peggiorati?
Sono nate delle difficoltà nuove. Chi ha tendenza all’ansia è più soggetto a maturare difficoltà, il suo fragile equilibrio precipita. E’ più facile il crollo senza il sostegno sociale.