Dopo un ventennio di privatizzazioni, lo Stato torna ad intervenire nell’economia, come nelle telecomunicazioni e con il fondo strategico di Cassa Depositi e Prestiti (CdP). La pandemia ha evidenziato la centralità della sanità pubblica nella prevenzione primaria e nelle emergenze sanitarie come l’attuale. La novità è che questi settori presentano una intensità di innovazione tecnologica che ne fa autentici motori dello sviluppo.

Da più parti si reclama la ricostituzione dell’Istituto di ricostruzione industriale (se vi dà fastidio il nome chiamatela Creazione Industriale, ma la sostanza è la stessa). A prescindere dalle lottizzazioni (che ci sono state), l’Iri ha contribuito in maniera decisiva al “Miracolo economico” degli anni 60, perché ha operato a lungo come una investment bank, sostenendo grandi investimenti nell’industria e nelle infrastrutture e impegnando, in questa attività, una gran mole di capitali e di cervelli.

L’Iri che proponiamo dovrà andare oltre. Dovrà organizzare e presidiare l’intera filiera dell’innovazione, dai grandi incubatori in stretta integrazione con le università alla promozione e sostegno di investimenti in una prospettiva di lungo periodo, anche ambiziosi. L’intervento della Gepi nel tessile a fine anni 60 è il modello di riferimento perché pose le basi del Made in Italy di 15 anni dopo.

La nuova Iri dovrà puntare su pochi centri di ricerca applicata di grandi dimensioni, magari incorporando quelli già esistenti (come l’Iit di Genova), di carattere interdisciplinare, ciascuno con una focalizzazione prevalente su specifiche filiere tecnologiche e con una distribuzione geografica bilanciata fra nord e sud, in modo da favorire il riequilibrio territoriale, con 10mila ricercatori fra cervelli di ritorno e giovani emergenti.

La prospettiva è quella di creare un “ibrido”, che metta insieme accademia, ricerca industriale e applicata, startupper, manager o consulenti dell’innovazione, in progetti valutati e sostenuti dalla nuova Iri.

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