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di Donatello D’Andrea

Immuni è quell’app che nel giro di qualche settimana cambierà il nostro rapporto con il coronavirus. Il suo obiettivo è quello di tracciare i movimenti nella fase due dell’emergenza sanitaria. Avremo a disposizione uno strumento di “contact tracing” scaricabile su base volontaria, gratuitamente. Il ricorso alla tecnologia si rende necessario, soprattutto di fronte alla fase due e all’esigenza di dover riaprire il Paese.

Un’esigenza rischiosa. La comunità scientifica continua a ripetere tutti i giorni che senza misure di controllo e tracciamento, la probabilità di rivivere questo incubo è altissima. Il coronavirus non è ancora stato sconfitto. Considerazioni del genere non sono servite a spegnere le polemiche, le quali fanno riferimento al trattamento dei dati e alla salvaguardia della privacy.

Urge fare un chiarimento, a questo proposito. La tecnologia seguirà il modello della privacy “decentralizzato”, voluto da Google e Apple. Sarà una scelta definitiva e obbligata per due motivi: per tutelare con maggiore forza la privacy e la sicurezza dei dati e per avere un’app che funzioni sostanzialmente meglio, accontentando le pretese di Apple e Google.

L’abbandono dell’altro modello, quello centralizzato, è stato causato dalla diffusione delle linee guida della Commissione Europea che hanno escluso il Gps e hanno imposto la tutela dei dati. Solo un modello decentralizzato poteva garantire tutto questo. Siamo sicuri, però, che condizioni del genere non rendano inservibile una applicazione di pubblica utilità?

Secondo gli esperti il modello centralizzato avrebbe promosso la possibilità di ampliare il raggio degli asintomatici da tenere d’occhio. Un “bene” per lo Stato ma un rischio per la privacy. Alla fine nessuno vuole rinunciare alla propria riservatezza, nonostante, all’epoca dei social network, questa sia diventata un vero e proprio tabù.

Il rischio per un’app del genere, la quale deve necessariamente essere usata dal 60% della popolazione, è di fallire ancor prima di cominciare. Bisogna convincere i cittadini ad adoperarla, sottolineando come la gestione dei dati, perlopiù anonimi, sia trasparente e necessaria.

In questo senso fanno scuola due casi: quello della Corea del Sud e l’altro di Singapore. In Corea è stato attivato un sistema di tracciamento imposto e ancora più ferreo rispetto a quello in programma in Italia. L’approccio ha funzionato e il Paese sta riuscendo a tenere sotto controllo l’epidemia senza enormi sacrifici, come nel nostro caso. I Paesi asiatici, dopo l’esperienza della Sars, hanno fatto alcune rinunce nel settore della privacy, col fine di ricostruire efficientemente la catena del contagio in caso di una epidemia. A Singapore è successo esattamente l’opposto: app volontaria e solo il 20% della popolazione l’ha scaricata. In sostanza, la probabilità che due persone con l’app si incontrino è del 4%.

Due modelli differenti e altrettanto emblematici. Non è necessario fare come in Corea del Sud ma è sconsigliato seguire il modello Singapore. La curva dei contagi è risalita proprio in questi giorni e l’applicazione si è rivelata un fallimento. In Italia, a causa delle pressioni dell’opinione pubblica e privata, si rischia di riaprire tutto senza le adeguate contromisure.

D’altronde è chiaro: l’unico modo di evitare nuovi contagi è quello di individuarli a tempo debito e isolarli. E l’applicazione mira proprio a fare questo, è opportuno chiarirlo.

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