Alla fine di aprile del ’45, dopo la liberazione del Nord-Italia, in pochi giorni crollano fascismo e nazismo, con la fine tragica dei protagonisti che li avevano incarnati. Nelle mie lezioni di diritto ho spesso analizzato, con gli studenti, il periodo della Resistenza come esempio del modo in cui un ordinamento si instaura a partire da una kelseniana grundnorm da cui derivano tutte le altre. La caduta di Hitler e Mussolini che, si badi bene, avevano conquistato il potere nel pieno rispetto delle norme vigenti e delle procedure attivate dalle rispettive maggioranze parlamentari.
La rottura della legalità, infatti, il “colpo di Stato” sui libri di storia è quello del 25 luglio ’43 con cui Mussolini era messo in minoranza nella notte di una domenica estiva e la mattina immediatamente successiva fatto arrestare con un escamotage quantomeno subdolo del re; l’armistizio dell’8 settembre con l’inqualificabile fuga del re e del governo (minuscole volute) e l’Italia divisa in due, con norme diverse, derivanti da autorità contrapposte; le convenzioni internazionali che, in assenza di una formale dichiarazione di guerra alla Germania, legittimavano l’esecuzione sommaria e la deportazione di centinaia di migliaia di militari italiani, che si trovarono ad esser prigionieri sia nei campi alleati che in quelli tedeschi; la validità formale, per fare esempi, delle leggi razziali o dei bandi militari, per cui in una strage efferata come quella delle Fosse Ardeatine le responsabilità penali degli ufficiali tedeschi potevano valere sono sulle vittime in più, che eccedevano le 320 legittimate da una norma che stabiliva la misura di 10 italiani per ognuno dei 32 militari altoatesini uccisi a via Rasella; e fu questo l’elemento a discolpa dei responsabili, anche nel processo di Norimberga: aver eseguito ordini superiori.
Per un periodo tutto sommato piuttosto breve, il suolo e la popolazione italiana si trasformarono in un fenomenale campo di sperimentazione di assetti giuridici con un epilogo quasi insperato, che ha del miracoloso, nella genesi di una Costituzione indiscutibilmente ben scritta, equilibrata, lungimirante, presa a modello da giuristi di tutto il mondo.
Dal punto di vista didattico, un simile approccio metodologico consente interessanti paralleli e coinvolgimenti di altre materie (in primis la storia, ovviamente, ma anche quella letteratura che doveva portare alla strabiliante stagione del neorealismo, che portò il cinema italiano a risultati neanche lontanamente paragonabili alla penosa produzione dei nostri giorni) che ben rispondono alle finalità di accrescimento delle competenze multidisciplinari.
L’unico problema, soprattutto quando ci si rivolge alle generazioni più recenti, è che la distanza temporale da quegli avvenimenti fa perdere il richiamo all’attualità con cui, personalmente, cerco di rendere interessanti le mie lezioni, rimarcando quasi ogni giorno la necessità di avere almeno un minimo di nozioni giuridico-economiche, se non altro per comprendere appieno i titoli dei giornali o telegiornali.
Ora, di crisi in crisi (con tutta la ricchezza di sfaccettature anche positive che il termine deriva dalla sua etimologia greca), mi sembra evidente che quello che sta succedendo con la pandemia – e con l’Italia ancora una volta in prima linea nel campo della sperimentazione normativa – fornisca allo studio del diritto scenari di straordinario interesse (al netto, va forse ribadito, della compassione e del rispetto per i troppi lutti). In più, c’è la strettissima attualità da analizzare in lezioni che riguarderanno vicende vissute in prima persona, sulla nostra pelle di docenti e discenti. Potremo spaziare dalla genesi delle norme ai rapporti con i principi costituzionali, dalla gerarchia delle fonti alla riserva di legge, dalle competenze del governo centrale in relazione alle autonomie territoriali, fino alla rivalutazione del ruolo della politica in un assetto di poteri, dal locale all’internazionale, profondamente rivisitato.
C’è una tale vastità di spunti di discussione, com’era per il periodo della nascita della nostra Repubblica, che lo spazio di un blog non consente neanche una sommaria elencazione. Vorrei tuttavia fare almeno un cenno a un paio di aspetti. Anzitutto, devo rilevare che si conferma anche nell’attuale evenienza una tendenza di massima del nostro sistema giuridico: troppe norme, provenienti da fonti diverse, spesso incoerenti e contraddittorie, talvolta lacunose; si va a discapito della certezza nel diritto, quindi si finisce per lasciare un eccesso di discrezionalità nell’interprete.
Per la brevità del periodo di riferimento, molto prima dell’avvio dei procedimenti giurisdizionali finisce nelle mani delle autorità schierate in prima linea (come in qualche caso hanno voluto-dovuto fare alcuni sindaci e governatori) e in ultima istanza delle forze dell’ordine (per fortuna da noi rodate da un lungo processo di democratizzazione oltre a una consolidata tradizione di umanità) la decisione tra ciò che è lecito e ciò che non lo è.
Pensiamo non solo alla disciplina di alcune attività produttive basilari, ma anche a faccende apparentemente meno serie, ma con risvolti socio-psicologici e di salute comunque importanti, come la nebulosa regolamentazione di alcuni spostamenti, delle attività motorie, della possibilità di far prendere una boccata d’aria e un raggio di sole ai nostri bambini o agli anziani, cioè alle categorie più deboli.
A questi aspetti, ripeto solo in apparenza secondari, si lega la seconda considerazione che vorrei proporre: noi adesso, a fine aprile, viviamo sotto le stesse disposizioni stabilite nell’ultimo decreto dei primi del mese. In quei giorni si stava ancora nel bel mezzo dell’emergenza, con allarmanti percentuali di contagi, di decessi e strutture sanitarie sotto stress, con la minaccia che certi disastri avrebbero potuto propagarsi in tutto il territorio con effetti ancor più tragici. La disciplina era ferrea, sia da parte delle forze di polizia, sia – va detto – grazie all’autocontrollo di chi restava chiuso in casa. Le strade erano veramente deserte, con qualche tensione eccessiva e accanimento tra cittadini che avremmo potuto risparmiarci.
Oggi i numeri sono più confortanti, si comincia faticosamente a intravedere uno scenario più rassicurante, i posti in terapia intensiva si stanno liberando ovunque, si fanno proiezioni sulle date in cui, giorno per giorno, regione per regione, nelle prossime settimane avremo la fine dei contagi. Ebbene il clima che si respira a tutti i livelli, in ogni contesto è profondamente diverso. Ripeto, il decreto in vigore è lo stesso, le norme identiche, sussisterebbe il divieto assoluto di uscire di casa se non per stretti casi di necessità e urgenza, ma sia tra i cittadini sia, mi vien da supporre, tra le forze dell’ordine, la rigidità dell’interpretazione sembra essersi stemperata. A maggior ragione dopo l’ultima conferenza con le prospettive di riapertura da parte del Presidente del Consiglio. Nelle strade, nei prossimi giorni saranno sempre di più i timidi accenni di ritorno a una forma di normalità.
Ecco il caso di studio: la legalità formale, ossia ciò che è scritto nella disposizione, nella fattispecie nel decreto, va messo in relazione con la legalità materiale, cioè con l’applicazione delle norme, che nella sua concretezza non può non tener conto delle circostanze in cui si interviene. Siamo di fronte a una mutata percezione delle norme giuridiche, che non può non condizionare sia il cittadino tenuto ad adeguarsi a determinate condotte (ancora una volta, solo la profonda interiorizzazione delle disposizioni può garantirne l’effettività), sia l’interprete tenuto ad applicarle e eventualmente sanzionare violazioni e comportamenti devianti.
Il diritto nasce, vive e si trasforma continuamente, in simbiosi con la società in cui opera, un po’ come il virus, appunto.