Appena la palla tocca la rete il piccolo Ronald inizia a piangere. Stava addentando un giocattolo e si è spaventato per l’improvviso boato di San Siro. Perché mentre suo padre Ronaldo trasforma una punizione dalla trequarti nel gol che vale il 3-1 per l’Inter, lui è in tribuna insieme a mamma Milene Domingues. Sono ospiti di Quelli che… il calcio. E devono sorridere anche se, a volte, le battute sono un po’ fiacche. Come quando Crozza indossa i panni di Altafini e dice: “Osservando Milene mi è venuto un detto brasiliano: ‘Infortunato in amore, fortunato in amore'”. Non il massimo. Eppure in quel pomeriggio del 28 aprile del 2002 tutto sembra sospeso in un’atmosfera magica. Perché grazie al successo sul Piacenza, l’Inter è riuscita a mantenere la testa della classifica. E ora, a 90’ dal termine del campionato, i nerazzurri hanno un punto di vantaggio sulla Juventus e due sulla Roma.
Un margine esiguo, visto che nelle ultime 4 giornate i bianconeri sono riusciti a recuperare 5 lunghezze. Anche per questo i nerazzurri sono stanchi e nervosi. Anche perché la vigilia della sfida col Piacenza è stata complessa. Ronaldo è alle prese con una contrattura all’adduttore destro, Vieri con qualche guaio muscolare. Ma, soprattutto, giocatori e tecnico temono di essere contagiati dall’insicurezza di un ambiente che non vince da 13 anni. Il sito dell’Inter lancia un sondaggio dove chiede ai fan di descrivere il proprio stato d’animo. Partecipano in 7mila. E più di due terzi si dichiarano ostaggio di un sentimento che oscilla fra l’ansia e la paura. Il martedì sera Di Biagio organizza una cena a casa sua. Ci sono Vieri, Dalmat, Toldo e qualche altro big. I giornali la ribattezzano il patto per lo scudetto, ma è solo un modo per guardarsi in faccia e rassicurarsi a vicenda. E visto che bisogna remare tutti nella stessa direzione, due giorni prima della partita Ronaldo si presenta in conferenza stampa per smentire le che lo vogliono lontano da Milano.
“Vorrei che l’Inter diventasse per me quello che il Santos è stato per Pelé“, dice. In verità i rapporti fra il Fenomeno e l’allenatore sono compromessi. Ronaldo è infastidito per lo scarso minutaggio che gli è stato concesso da Cuper una volta tornato dall’infortunio. Il mister, invece, vuole dimostrare che tutti i giocatori sono sullo stesso piano. Per questo non sopporta che Moratti consideri il brasiliano più uguale degli altri. In attesa di prendersi la sua rivincita, il mister argentino cura ogni dettaglio della preparazione. Per prima cosa chiede e ottiene il ritorno alla Pinetina della crostata di frutta preparata dal ristorante di un tifosissimo nerazzurro. Era mancata il sabato precedente alla sconfitta contro l’Atalanta e il mister si era detto molto infastidito. Poi, prima della rifinitura, raduna i suoi giocatori al centro del campo. Per 10 minuti si lascia andare a parole e gesti. Non sono nozioni di tattica ma parole in grado di toccare l’anima.
Mentre Cuper conduce la sua messa laica, un ragazzino si mette a correre verso l’allenatore. L’argentino sorride e dice all’invasore di sedersi fra i giocatori. Un clima da libro cuore che trova la sua sublimazione la domenica, sul campo di San Siro. L’allenatore manda in campo Vieri, Ronaldo e Recoba. Contemporaneamente. E l’azzardo dà i frutti sperati. L’Inter è già in vantaggio per 2-1 quando, all’80’, guadagna un calcio di punizione sulla trequarti. Tutto San Siro trattiene il fiato mentre Ronaldo sistema il pallone con cura sull’erba verde. Poi all’improvviso Recoba corre verso la sfera portandosi dietro lo sguardo di tutto il Piacenza. Il Fenomeno tira, supera la barriera, gonfia la rete. Orlandoni non è riuscito neanche a sfiorare il pallone. È il quarto gol del brasiliano nelle ultime 3 partite.
“Poco fa Ronaldo mi spiegava di aver studiato in tv i movimenti del portiere e della barriera del Piacenza – dice Moratti a fine partita – così gli è parso di segnare un gol facilissimo, mentre per ciascun altro sarebbe stato assai difficile”. Il presidente cerca di misurare le parole, ma non riesce a tenere a freno l’entusiasmo. Perché ora all’Inter manca una sola partita. Contro la Lazio. All’Olimpico. Lo stesso stadio dove il 12 aprile del 2000 Ronaldo era tornato a giocare dopo l’infortunio al ginocchio. Era durato solo sei minuti. Giusto il tempo di subire un fallo da Couto e provare due allunghi. Poi il brasiliano aveva stoppato un pallone vagante e aveva puntato la porta della Lazio. Solo che mentre provava a superare due avversari aveva sentito il dolore addentargli il ginocchio e la gamba cedere all’improvviso. Rottura del tendine rotuleo, avevano sentenziato i medici. Ora però il destino gli ha offerto la possibilità di riscrivere la storia.
“Voglio cancellare quel ricordo con un gol, con lo scudetto“, spiega. Non succederà. Il suo ultimo gol con la maglia dell’Inter resterà quello realizzato a Piacenza. Quello che succede all’Olimpico, in quel 5 maggio, è storia nota. I nerazzurri si schiantano contro la Lazio e perdono 4-2 una partita che sembrava vinta. Con la squadra chiamata a ribaltare il risultato, Ronaldo viene richiamato per far spazio a Kallon. Il brasiliano si siede in panchina e si copre gli occhi con le mani. Poi scoppia a piangere in quello stadio che sembra maledetto. Per la seconda volta in due anni. La Juventus è campione d’Italia, la Roma è addirittura seconda. Cuper si conferma il numero uno nel laurearsi numero due. In tre anni ha perso tre finali: una in Coppa delle Coppe con il Maiorca e due in Champions League con il Valencia. E ora l’Inter.
Ora quel 5 maggio che sposta l’idea di Pazza Inter verso nuovi confini mai esplorati. Ma sul prato verde dell’Olimpico, Moratti ha perso qualcosa in più dello scudetto. Ha smarrito anche il giocatore che aveva trattato come un figlio. Ronaldo non ne può più di Cuper e i sussurri delle settimane precedenti ora diventano un grido impossibile da ignorare. Qualche giorno prima Ronaldo aveva strizzato l’occhio al Real. “Io insieme a Zidane, Figo e Roberto Carlos? Beh – aveva detto a TV Globo– sarebbe come il Dream Team di basket”. Una frase che assume un significato molto diverso subito dopo la sconfitta dell’Olimpico. Perché, paradossalmente, quella partita assurda rafforza Cuper, che chiede i pieni poteri a Moratti. Il 10 maggio va in scena una lunghissima riunione. Quando il presidente esce dalla sede della Saras è sera. “Cuper è una persona seria e ha una voglia di rivincita formidabile”, dice. L’argentino resta in sella. D’altra parte il giorno prima il sito dell’Inter aveva lanciato un altro sondaggio.
Stavolta domandava chi fosse l’uomo giusto per ripartire. E il 57% dei tifosi aveva scelto Cuper. Così Reinaldo Pitta, uno dei procuratori di Ronaldo, parla chiaro: il Fenomeno vuole una squadra capace di vincere. Ed è stanco di guadagnare meno di Recoba e Vieri. Moratti è sconcertato. “Qui c’è ancora gente che piange per la partita che hanno disputato domenica – sospira – Non posso più permettermi di essere buono. Ora nessun giocatore è incedibile. Neanche Ronaldo”. Dieci giorni dopo il brasiliano getta acqua sul fuoco: “Andrei via solo se avessi seri problemi con l’Inter”. E il serio problema si chiama Cuper. L’estate è una lunghissima agonia. Tutti conoscono già il finale della storia ma nessuno può permettersi di chiuderla in fretta. Ronaldo prima dice di voler partire, poi di voler restare, poi ancora di voler andare via. “Se l’ho pagato per tre anni senza che lui giocasse – tuona Moratti – posso permettermene anche altri tre a vuoto per fargli rispettare il contratto che ha firmato con noi”.
Il giocatore vive ai margini dell’Inter, non posa neanche per l’album Panini. A Ferragosto Cuper decide di chiarire la faccenda a modo suo: “Non ho nessun problema con Ronaldo, io. Non vedo nessuna rottura fra me e Ronaldo, io. Ora si parla di una questione fra due persone, ma questo non è un problema fra due persone: perché chi ha problemi è soltanto uno”. Il finale è già scritto, ma bisogna aspettare il 31 agosto perché sia rivelato al mondo intero: il Real stacca un assegno da 45 milioni di euro e il Fenomeno vola a Madrid. Portandosi dietro il rammarico per l’ultimo gol segnato in nerazzurro. Non contro la Lazio, ma sette giorni prima, contro il Piacenza.