Duemilacinquecento palline al giorno. Diciasettemilacinquecento a settimana. Un milione all’anno. È questo il mondo che Emanoul Aghasi – iraniano di origini armene e assire, pugile alle Olimpiadi di Londra 1948 e Helsinki 1952 – costruisce per suo figlio, Andre Kirk Agassi. Per farlo allenare a questi ritmi costruisce anche una macchina sparapalle. È un uomo ossessionato dalla perfezione e vuole che il suo quarto figlio diventi un campione. Con gli altri tre le soddisfazioni sportive sono state scarse.
Il risultato? Otto Slam, una medaglia d’oro olimpica e sessanta titoli Atp. Vittorie ma non solo. Andre Agassi è stato un giocatore dall’animo complesso e indecifrabile. Qualcuno lo ha definito un “Amleto calvo”. Nel suo libro Open ha confessato di aver rubato un panda a un parco divertimenti, di aver perso apposta dei match, di essersi fatto di anfetamina e di aver indossato per anni una parrucca. Per David Foster Wallace i suoi movimenti somigliavano più a quelli di un frontman heavy-metal. Cinque momenti per descrivere un giocatore e personaggio affascinante e unico, nato il 29 aprile 1970. Cinquanta anni fa.
Wimbledon 1992, Agassi – Ivanisevic 6-7 6-4 6-4 1-6 6-4
Agassi ha già perso tre finali Slam in carriera, due al Roland Garros e una agli Us Open. Se c’è uno Slam dove l’americano non crede di poter rompere la maledizione è Wimbledon. Oltre a una questione puramente tecnica, i Championships sono il torneo più lontano con la sua mentalità. Le usanze del torneo londinese stridono con l’anima anarcoide di Agassi. Ai quarti di finale supera Boris Becker. In semifinale il redivivo John McEnroe. All’ultimo atto Agassi trova Ivanisevic. I due arrivano al quinto set. Agassi sale 5-4, Ivanisevic sente la pressione del momento. La prima di servizio perde improvvisamente di efficacia e Agassi si ritrova a un punto dalla vittoria. Ivanisevic affossa in rete la successiva volée di rovescio. Per Agassi l’attesa è finalmente finita. È un campione Slam. Ha 22 anni, un cappellino da baseball e i suoi capelli lunghi sono in realtà un parrucchino.
L’estate 1995, i quattro tornei consecutivi e il declino
C’è un momento che fa da spartiacque nella carriera di Agassi. È l’estate del 1995. È il numero uno del mondo e durante la stagione ha già trionfato in Australia. A Parigi e Londra arrivano però due cocenti delusioni, rispettivamente contro Kafelnikov e Becker. Gli Us Open sono l’occasione giusta per zittire tutte le critiche. Vince a Washington contro Edberg, a Montreal contro Pete Sampras, a Cincinnati contro Michael Chang e a New Haven contro Richard Krajicek, annullando due match point. Quattro titoli in cinque settimane. Si presenta agli Us Open con una striscia di 20 vittorie consecutive. In semifinale si prende la rivincita contro Becker ma il suo fisico è provato. Il match con il tedesco gli è costata il distaccamento della cartilagine delle costole. In finale il servizio e lo scambio da fondo sono fortemente condizionati. Sampras vince in quattro parziali: 6-4 6-3 4-6 7-5. Per Agassi la sconfitta è più nello spirito che nel fisico: “Dopo la sconfitta contro Pete ho perso la voglia” scrive in Open ricordando quella partita. La discesa che lo accompagnerà per due anni è appena iniziata.
Roland Garros 1999, Agassi – Medvedev 1-6 2-6 6-4 6-3 6-4
La pioggia ha interrotto per la seconda volta la sua terza finale al Roland Garros (la prima nel 1990 persa contro Andrés Gòmez). Era successo anche otto anni prima, quando perse il derby americano contro Jim Courier. L’unica differenza con il 1991 è che questa volta è sotto due set a zero, 6-1 6-2. Dall’altra parte della rete c’è Medvedev, un giocatore che non doveva nemmeno essere a quella edizione dello Slam parigino. Pochi mesi era stato proprio Agassi a incoraggiarlo per rilanciare la propria carriera. È il 6 giugno 1999. Sono passati quattro anni dall’ultima finale Major di Agassi (sconfitta contro Sampras agli Us Open 1995). Per trovare l’ultima vittoria c’è bisogno di andare indietro fino agli Australian Open 1995. In mezzo ci sono state la depressione, il caso anfetamina del 1997 e il controllo antidoping positivo, il divorzio dalla moglie Brooke Shields e il crollo in classifica al numero 144 che lo costringe a ripartire dai tornei Challenger. Ci sarebbe anche la medaglia d’oro alle Olimpiadi di Atlanta 1996 ma per molti è un tennista ormai arrivato alla fine.
Dopo aver ritrovato la top 10 nel 1998, quel Roland Garros è l’occasione giusta per tornare al trionfo. È l’unico torneo che gli manca per completare il Career Grand Slam, il riconoscimento per chi ha vinto almeno una volta tutti i trofei del Grande Slam. Quando i due rivali tornano in campo dopo la sosta per pioggia qualcosa è cambiato. I colpi di Agassi escono più rapidi e precisi dalla racchetta. Le sue gambe si muovono diversamente. Medvedev perde l’opportunità di servire per il titolo, sprecando una palla break sul 4-4 del terzo set. È la svolta decisiva. Con un 6-4 6-3 Agassi spinge la partita al quinto. È una risposta lunga di Medvedev a consegnare ad Agassi un titolo atteso da nove anni: 6-4. È l’inizio della sua seconda vita sportiva. È la partita più importante della sua carriera.
Us Open 2001, Agassi – Sampras 6-7 7-6 7-6 7-6
Come Federer-Nadal e Borg-McEnroe, Agassi e Sampras sono antitetici. Servizio e gioco di volo per Sampras, rovescio e fondocampo per Agassi. Il dualismo che ha caratterizzato gli anni ’90. Nel bilancio totale la sfida vede avanti Sampras: 20 a 14. Due numeri uno, abituati a fronteggiarsi da quando hanno dieci anni. Tra le tante sfide giocate l’uno contro l’altro la più bella è però la penultima. Siamo agli Us Open ma non è una finale. Sono i quarti dell’edizione 2001. Mancano cinque giorni all’attacco delle Torri Gemelle. Quattro tiebreak. Tre ore e 32 minuti di lotta memorabile in cui né Agassi né Sampras perdono mai il servizio. Agassi cede a Sampras per 6-7 7-6 7-6 7-6 al termine di un match diverso da qualsiasi altro si sia giocato tra i due. I vincenti si susseguono, così come gli scambi memorabili. La percentuale di errori è bassissima. Alla fine a fare la differenza è la maggior propensione di Sampras per i tie-break. Dettagli insomma, ma dal grande peso specifico. Quarantotto secondi di standing ovation all’inizio del quarto parziale certificano un match che, dalle parti di New York, non si era mai visto.
Us Open 2006, Agassi – Baghdatis 6-4 6-4 3-6 5-7 7-5
È il 31 agosto e le tribune dell’Arthur Ashe sono gremite con 23mila spettatori. Siamo al secondo turno degli Us Open. Perdendo contro Marcos Baghdatis – numero otto del mondo e finalista agli ultimi Australian Open – Agassi darebbe l’addio al tennis. Quella sera il Kid di Las Vegas entra in campo con un unico obiettivo in testa: rimandano di un’altra partita la fine della carriera. I colpi rispondono bene, così come un fisico che nell’ultimo anno è andato sempre più deteriorandosi. In particolare la schiena. Il doppio 6-4 con cui Agassi vola sul due a zero pare il preludio a una facile vittoria. Di fronte all’idolo d’infanzia che tanto ha ispirato il suo gioco, Baghdatis pare intimorito. Eppure, col passare dei minuti, il cipriota trova la forza di dare battaglia. Il break del terzo set silenzia l’Arthur Ashe, dando avvio alla rimonta che costringe Agassi a giocare il suo ultimo quinto set: 6-3 7-5.
All’inizio dell’ultimo parziale l’atmosfera è incredibile. Ad ogni punto la folla esulta come se in palio ci fosse il titolo e non l’accesso al terzo turno. Ogni scambio diventa una battaglia. Non c’è più spazio per punti facili al servizio. All’improvviso il fisico di Marcos Baghdatis cede. I crampi arrivano nel momento cruciale e costringono il cipriota a continuare il match zoppicando vistosamente. Sul 5-5 l’americano tiene il servizio dopo essere stato per otto volte sul 40-40. È la premessa del break che arriverà il game successivo: 7-5 Agassi. È la sua ultima grande impresa.