C’è un particolare interessante che rivela l’umore di Donald Trump in questi giorni. Nei suoi ultimi tweet, oltre a dirigere la sua rabbia contro New York Times, CNN e gli altri media che gli sono tradizionalmente avversi, il presidente se l’è presa con Fox News, che starebbe facendo da altoparlante alle idee dei democratici. La furia di Trump contro Fox arriva sino a chiedere un’alternativa davvero conservatrice alla tv che l’ha deluso. Non fa alcun nome, il presidente, ma è chiaro dove guarda. A OAN (One America News Network), che negli ultimi tempi si è dimostrata particolarmente incline a corteggiare la Casa Bianca e a osservarne l’ortodossia.

L’episodio è interessante perché fotografa tensioni e difficoltà all’interno del mondo conservatore – e i timori che si stanno allungando sul futuro di Trump e dei repubblicani. Tutti i sondaggi di questi giorni mostrano un netto declino nel grado di soddisfazione degli americani per come Trump sta guidando la lotta al Covid-19. Una recente rilevazione Wall Street Journal/Nbc News mostra che soltanto il 36 per cento degli intervistati crede a quello che Trump dice sul coronavirus; con un margine di 9 punti, Biden viene considerato una (possibile) miglior guida per fronteggiare la crisi. Polemiche sulla mancanza di adeguati equipaggiamenti sanitari, carenza di tamponi, quotidiani scontri con le autorità statali hanno pesantemente incrinato la percezione della risposta di Trump all’emergenza. L’ultimo sondaggio Usa Today/Suffolk University Poll sancisce la curva discendente. Nello scontro per la presidenza, Joe Biden è in vantaggio su Trump di 6 punti: 44 contro 38 per cento. In altre parole, quello che non hanno fatto il Russiagate e le altre decine di scandali in cui è stata coinvolta la Casa Bianca, lo sta facendo il Covid-19.

Ci sono poi altri segnali particolarmente negativi per la Casa Bianca. I briefing quotidiani sul Covid-19, che sinora Trump ha usato come comizi elettorali in cui attaccare i nemici – Biden e i democratici “nullafacenti”, la stampa, i governatori, la Cina, l’Oms– si sono trasformati in un vero e proprio incubo per i collaboratori del presidente. Trump parla troppo – anche due ore – e spesso parla a vanvera. Il recente consiglio dato in conferenza stampa ai medici di indagare qualcosa che possa, come i raggi ultravioletti o un disinfettante, “avere effetti benefici sui polmoni” colpiti dal coronavirus, è solo l’ultimo episodio di una serie di gaffe e dichiarazioni strampalate: dalla proclamazione dei poteri assoluti che Trump ha rivendicato per sé (per poi fare rapida marcia indietro) sino all’esaltazione di un farmaco anti-malarico senza alcuna prova scientifica nella cura del Covid-19.

“Il presidente dovrebbe parlare soltanto quando ha qualcosa da dire, altrimenti lasci il compito degli aggiornamenti quotidiani ai suoi team sanitari ed economici”, ha detto Jason Miller, ex consulente di Trump ai tempi della campagna elettorale. Travolto da polemiche e attacchi, e consigliato dai suoi principali collaboratori, il presidente ha cancellato i briefing dello scorso week-end. Il silenzio stampa è però durato pochissimo. Lunedì Trump era di nuovo davanti ai giornalisti, insieme ai CEO di società che operano nel settore sanitario e a Deborah Birx, che coordina la task force della Casa Bianca sul virus. Rispetto al passato, questa conferenza stampa è durata meno (solo un’ora) ed è parsa più strutturata, meno in balia delle uscite estemporanee di Trump. Anche in questa occasione il presidente Usa ha però soffiato sul fuoco di accuse, rivendicazioni, minacce, sollevando nuovi dubbi e riserve tra i suoi stessi sostenitori. “Devi vendere speranza alla gente – ha detto Tom Cole, un deputato repubblicano dell’Oklahoma – ma Trump troppo spesso vende rabbia, divisione, vittimismo”.

Fosse solo una questione di conferenze stampa, non sarebbe comunque così grave. Il fatto è che molti repubblicani si rendono conto che le chance di rielezione di Trump si fanno di settimana in settimana più esigue. Non c’è soltanto la gestione poco felice dell’emergenza sanitaria. Ci sono i 26 milioni di posti di lavoro persi dallo scoppio della crisi. C’è un’economia che si inabissa, con scarse possibilità di riprendere quota prima della campagna presidenziale. Ovviamente Trump non è direttamente responsabile del disastro. Ma i repubblicani tornano con la memoria a quanto successe nel 2008, quando la stanchezza per la guerra in Iraq e gli effetti della recessione globale condussero il partito a una sconfitta bruciante. È vero che in queste settimane il messaggio elettorale di Trump è cambiato: non è più l’uomo che ha portato ricchezza all’America, è l’uomo che può restaurare quella ricchezza. “Abbiamo costruito la più grande economia nel mondo; lo farò per una seconda volta”, ha proclamato a inizi aprile. I dubbi però non mancano. Cosa succederà di questa promessa di nuova rinascita se a ottobre ci si troverà ancora con milioni di disoccupati, aziende al collasso, magari una seconda ondata di Covid-19?

Le aspettative di molti repubblicani sono state gelate due settimane fa dall’arrivo di una ricerca riservata commissionata dal Republican National Committee in 17 Stati, che mostra come Trump arranchi dietro Joe Biden in buona parte degli swing states – e come in particolare il Wisconsin appaia ormai probabilmente perduto a vantaggio dei democratici. Ci sono poi i sondaggi quotidianamente prodotti da società di ricerca e dai media, che mostrano una forte sofferenza del candidato repubblicano in Pennsylvania, in Michigan, persino in Florida, che è diventata lo Stato di residenza di Trump e che deve essere assolutamente vinta se i repubblicani vogliono tenere la Casa Bianca. È vero che si tratta al momento di sondaggi e che nel 2016, come sappiamo, molti di questi davano ampiamente favorita Hillary Clinton. Ma è anche vero che questi numeri contribuiscono a diffondere un senso di disagio nemmeno troppo sottile tra le file del partito repubblicano.

Con questo non si vuole dire che Biden sia a questo punto il favorito di novembre. Sul candidato democratico pesano una serie di incognite che alla fine potrebbero rivelarsi pesanti limiti strutturali. Biden è rinchiuso a casa sua in Delaware, alternando sedute di pesi per mantenersi in forma e apparizioni in streaming nelle varie trasmissioni TV. Sinora non sembra essere riuscito a modulare un messaggio chiaro per fronteggiare l’emergenza sanitaria – né il programma democratico per i prossimi quattro anni, oscillante tra progressisti e centristi, tra l’establishment del partito e gli eredi di Sanders, tra le diverse spinte nella scelta della vice presidente, appare particolarmente definito. Sui democratici grava anche un’altra minaccia: l’enorme forza finanziaria che la campagna di Trump è pronta a dispiegare. Il presidente e il Republican National Committee hanno un vantaggio di 187 milioni di dollari sugli sfidanti: un divario che le migliaia di piccole donazioni che piovono su Biden non saranno mai capaci di azzerare.

Trump è quindi tutt’altro che bruciato. Per lui è però iniziata una fase difficile, turbolenta, dagli esiti imprevedibili. Lo stesso, verrebbe da dire, vale per il partito repubblicano, che in questi anni ha finito per identificarsi anima e corpo con il suo presidente e che ora rischia di affondare con lui – perdendo alle prossime elezioni il controllo del Senato. Lo stop ai briefing quotidiani di Trump ha quindi questo significato. Evitare clamorosi passi falsi. Rimodulare il messaggio. Attendere tempi migliori. Nella speranza che, da qui a ottobre/novembre, l’America abbia superato la fase peggiore dell’incubo.

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