Società

Coronavirus, nella fase due serve un passo in più: alla solidarietà sostituiamo la collettività

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di Monica Valendino

La fase due, più che far interrogare gli italiani su quali congiunti possano rivedere, andando magari a spulciare nell’album impolverato di famiglia quali vecchi cugini mai visti si possano interpellare pur di uscire, è bene che faccia riflettere su alcuni aspetti del dramma in cui viviamo.

La fase uno è stata inizialmente caratterizzata dalla solidarietà. Andy Weir nel suo libro “Sopravvissuto” ha sintetizzato bene cosa significhi: “Se un escursionista si perde in montagna, ci sono altre persone che coordinano una spedizione di ricerca. Se un treno deraglia, c’è gente che si mette in fila per donare il sangue. Se un terremoto rade al suolo una città, c’è gente che da tutto il mondo invia rifornimenti. Tutto questo è così fondamentalmente umano che si riscontra senza eccezioni in tutte le culture. Sì, ci sono le teste di cazzo a cui non frega niente, ma sono una minuscola minoranza in confronto a tutti quelli a cui frega moltissimo”.

Ecco, il concetto è che nel momento del bisogno scatta quell’empatia che ci rende vicini l’un l’altro. Ma pian piano questo sentimento scema. Tanto che alla fine della fase uno, infermieri che hanno la “colpa” di lavorare in reparti Covid sono stati apostrofati malamente da vicini impauriti che possano fare da untori. E’ successo in più parti d’Italia.

Ora scatta la fase due e, oltre alla propaganda dei soliti governatori che prima volevano tenere tutto aperto poi tutto chiuso ora di nuovo aperto, serve trovare un senso di collettività. Cosa sempre mancata in Italia e ben diversa dalla solidarietà. La collettività prevede gesti non dettati dall’emergenza. Ma per arrivarci serve una svolta sociale.

Oscar Wilde nel suo saggio “L’anima dell’uomo sotto il socialismo” teorizzava che l’istituto della proprietà privata, così com’è concepita, doveva essere sostituito con una più efficace ricchezza pubblica e la concorrenza con la cooperazione. Mai così attuale il concetto, ma per arrivarci serve enfatizzare l’individuo sempre secondo Wilde.

Teoria ripresa anche dallo psicologo Abraham Maslow, che ha elaborato il concetto in una piramide. Alla base i bisogni primari, quelli fisiologici come respirare o mangiare. Poi la sicurezza (fisica, occupazionale, di proprietà); a salire l’appartenenza (affetti); successivamente la stima (soggettiva con la realizzazione e collettiva con il rispetto reciproco). In cima alla piramide l’autorealizzazione, alla quale si arriva solo se si sono scalati gli altri gradini della piramide. Ma quanti lo fanno? Pochi, quasi nessuno.

Così anche l’individualismo deraglia, diventa egoismo, quello che vediamo oggi quando la paura fa pensare prima ai propri bisogni che a quelli collettivi. Però questo è un passo indietro, mentre questa pandemia dovrebbe arrivare a farci capire che serve una nuova società e un nuovo modello sociale. Quelli che Wilde vedeva come il vero socialismo. Se la società permetteva la base e l’ambiente adeguato per lo sviluppo di tutti gli esseri umani, era ancora necessario l’individualismo. E quando un individuo è al vertice della piramide di Maslow, alla fine è più propenso a diventare propenso al bene collettivo: pagando le tasse, non eludendo le regole, non facendosi corrompere da facili vie d’uscita, rispettando le regole.

Quello che all’Italia è sempre mancato e che oggi si sta amplificando nell’egoismo che prende il posto della solidarietà.

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