Steven era una di quelle persone che parlano più con gli occhi che attraverso le parole. Gli occhi e, quasi sempre, il sorriso. Aveva un anno in più di me. Me lo ricordo col suo casco nero e quell’umiltà, che si faceva impegno, quando l’allenatore gli diceva cosa doveva fare. Sciavamo insieme, nello stesso sci club. Poi i casi della vita ci hanno portato su strade diverse. E ci siamo persi di vista.
Steven è morto lo scorso 18 aprile per coronavirus. È morto a Lipsia, dove era stato trasferito, a 31 anni appena compiuti.
Nei paesi della valle (Brembana) in cui sono cresciuto e dove abitava Steven, in Valle Seriana, focolaio del Covid, e in tutta la Bergamasca, i decessi sono raddoppiati, quintuplicati. A volte anche decuplicati. Le persone sono morte in casa, spesso, perché le ambulanze e i medici non facevano in tempo ad arrivare. Oppure in ospedale, lontano dai parenti, senza che rianimatori e anestesisti riuscissero a mettere a punto per loro una terapia efficace. E i figli, le mogli, i fratelli non hanno potuto salutarli. La frustrazione e la rabbia, in queste comunità, tanto nella Bergamasca quanto nel Bresciano, sono esplose. E non so dire se tale ondata di tensione emotiva troverà sempre sbocchi legittimati all’interno del confine stabilito dal nostro convivere civile.
Eppure Matteo Renzi oggi in Parlamento, simbolo della nostra vita democratica, è riuscito a dire: “Il coronavirus è una bestia terribile che ha fatto 30mila morti nel modo più vigliacco. Ma noi non siamo dalla parte del coronavirus quando diciamo di riaprire. Onoriamo quei morti. La gente di Bergamo e Brescia che non c’è più, se potesse parlare ci direbbe di ripartire”.
Non credo ci sia bisogno di commenti. Spero solo che un parlamentare, un rappresentante degli italiani, non arrivi mai più a spingersi tanto in basso solo per raggranellare un pezzetto di consenso in più. Renzi, si vergogni. E chieda scusa. Chieda scusa ai parenti delle vittime, se ne è capace.