Ecco la rubrica del giovedì con il bestiario di ciò che accade nelle serie minori del pallone italiano. Le perle nei comunicati della giustizia sportiva regionale, quelle dei calciatori in campo e dei giornalisti in tribuna stampa. Nella puntata di oggi l'intervista a uno dei figliocci del Boemo, che poi ha continuato la carriera come solo i brasiliani sanno fare: divertendosi
Spulciando il suo profilo social, in una foto lo vedi giocare con Rivaldo, Julio Cesar, Aldair, Champions League che parlano e Scudetti che ascoltano. In quella successiva è su un campetto di provincia. È Anderson Rodney de Oliveira al secolo Babù: freccia nella ricchissima faretra di Zdenek Zeman, mai scoccata in pieno per i gravissimi infortuni patiti. Brasiliano, amico intimo di Cafu, arriva in Italia e il boemo lo nota in amichevole: “Mi vide e ne parlò con Cafu e alla fine decise di prendermi”. Gran fisico, veloce, bel sinistro. Perfetto per il 4-3-3 dell’allenatore ceco che se lo porta a Salerno (dove segna pure al Napoli in un derby) e poi a Lecce. “Un maestro di calcio Zeman, gli devo tutto. Se lo sento ancora? Ci siamo sentiti al telefono un po’ di tempo fa, ma è come lo vedete, non parla. Una cosa è quando allena e deve parlarti, allora ti insegna a stare in campo, ti insegna il calcio, praticamente. Un’altra è chiacchierare. Lui non sta volentieri al telefono a chiacchierare”.
In maglia giallorossa, Babù si mette in mostra giocando bene e segnando anche bei gol, con quel sinistro potente e preciso, salvo poi infortunarsi gravemente, stare un anno fermo, riprendersi e infortunarsi di nuovo gravemente: “E quando in quattro anni ti rompi entrambe le ginocchia non è che c’è troppo da fare”. In carriera anche un passaggio alla Roma, dove però rimane pochissimo, senza giocare, per poi andare in Portogallo. Passati abbondantemente i trenta Babù, senza rimpianti e godendosi il calcio come solo un brasiliano sa fare, non si mostra altezzoso, passando tranquillamente dalla Domenica Sportiva alle Domeniche Bestiali, e anche oggi a 40 anni calca campetti, vedendone tante, tra bandierine che diventano spade, reti per le olive nelle porte, linee store e tanto altro.
Oggi Babù vive a Napoli e da tempo bazzica l’Eccellenza e la Serie D nelle squadre campane (in mezzo anche l’esperienza nella squadra antirazzista partenopea: l’Afro Napoli United): “Chiaramente, avendo fatto 12-13 anni di professionismo la differenza si nota. Capita che devi fare gli allenamenti e manchi il pallone, capita che in settimana manchi l’abbigliamento sportivo, però se ti diverti va tutto bene. Tranne quando manca l’acqua calda negli spogliatoi”. No, lì non ti diverti, specie se sei brasiliano ed è gennaio. E gli avversari: “Qualcuno mi chiede foto e autografi, altri vogliono misurarsi col giocatore dal passato glorioso e la prende come una sfida, ma fa parte del gioco”. Ma ai campetti di terra intervalla i tornei con le leggende: “Sì, è una bella cosa. Con Rivaldo, Julio Cesar, Aldair abbiamo fatto il torneo di calcio a cinque per le vecchie leggende, quello a cui ha partecipato anche Totti, con Baggio che faceva l’allenatore. Avremmo dovuto giocare anche quest’anno ma poi è arrivato il coronavirus. Giocare con Rivaldo e con campioni del genere è bellissimo anche se è solo per amichevoli, ma meglio ancora è starci a contatto. Cafu mi diceva sempre ‘più in alto arrivi e più belle persone trovi’, e aveva ragione”.
E a 40 anni suonati Babù, che ha pure una scuola calcio oggi in stand-by come tutto il comparto, non sa se riprenderà o meno a giocare o smetterà: “Io devo divertirmi, se trovo un progetto che mi diverte allora gioco ancora, ma se devo andare dove non hanno neanche magliette e tute per i calciatori allora no, meglio smettere”. Da queste parti, c’è da dire, rimaniamo come Zeman di fronte al tasto “registra un vocale”, quando osserviamo un dilettantismo troppo vicino al professionismo e senza tribune di fortuna, braciate e tifosi un po’ scostumati, però per lui facciamo un’eccezione: non smettere Babù!