“Come facciamo a essere sicuri di non essere infetti, prima di tornare al lavoro?”. E’ una domanda che, alla vigilia dell’agognata “fase 2”, si sente rivolgere spesso Vittorio Agnoletto, che da medico del lavoro e da attivista politico di lungo corso è una voce critica e documentata sulle storture e gli interessi privati che si celano dietro le eccellenze della sanità lombarda, come si può leggere sul blog de ilfattoquotidiano.it, sulle sue pagine social personali e dal microfono si una seguita trasmissione su Radio popolare, 37 e 2. La domanda ci riporta al tema irrisolto dei tamponi per testare chi è infetto e chi no. “In Lombardia si fanno solo ai sintomatici e, più recentemente, al personale sanitario”, spiega Agnoletto. “Altrove sono più estesi, ma a oggi nessuna Regione ha in programma di testare chi torna al lavoro. Temo che il risultato finale sarà un grande regalo ai privati, che già mettono fuori tariffe fra i 100 e i 200 euro a prelievo”.
Secondo lei chi dovrebbe sottoporsi all’esame prima di tornare in fabbrica, in ufficio, in negozio?
In particolare chi ha avuto il Covid-19 “certificato” da un tampone positivo, per essere sicuro di non essere più infetto. Chi ha avuto i sintomi, ma non è mai stato sottoposto al test, e i casi sono numerosissimi. Chi non ha avuto nulla, ma è stato a stretto contatto con una persona, magari un convivente, con Covid o sospetto Covid. Sono tutte categorie di persone che con la ripresa delle attività potrebbero diffondere il virus.
E lei che cosa risponde a queste persone?
Da medico del lavoro posso dire soltanto di fare il tampone o il test sierologico. Dato che la sanità pubblica non li fa, dovrei avere il coraggio di dire al datore di lavoro che deve pensarci lui, e magari rischio pure di essere licenziato. Certo, a nessun datore di lavoro conviene innescare un focolaio nella propria azienda, se non altro perché metterebbe a rischio la ripartenza. Quindi prevedo grandi affari per i privati.
Pochi giorni fa con 37 e 2 avete denunciato uno strano caso, giusto?
Una persona era stata inviata a fare il tampone in un laboratorio di analisi del San Raffaele Resnati di Milano. Gli hanno fatto pagare 332 euro. Essendo risultata positiva, è poi toccato ai suoi familiari: 280 euro a testa, per “sconto famiglia”. Quando abbiamo sollevato il caso, il 16 aprile, il responsabile della struttura ci ha contattati per dirci che si era trattato di un errore, sia aver fatto un tampone a un privato sia la tariffa richiesta, e che avrebbe disposto la restituzione dei soldi. Ma ci ha anche rivelato che per le strutture convenzionate, tra le quali c’è il Comune di Milano, ogni tampone costa 140 euro.
Troppo?
A me risulta che costino meno. L’atteggiamento di Regione Lombardia spalanca un mercato enorme al privato. Mi domando perché. E mi domando anche come mai manchino i reagenti per i tamponi, a quanto leggo, ma queste strutture ne sono fornite. Il Ministero della Salute dovrebbe intervenire, anche con requisizioni. E dovrebbe calmierare i prezzi di questi e altri presidi, come le mascherine, anche queste necessarie al ritorno al lavoro in sicurezza.
In alternativa c’è il test sugli anticorpi, altro tema molto dibattuto in questi giorni, anche fra gli esperti.
E’ un’araba fenice. Il governo dice “arriva”, ma poi non succede nulla. Nel frattempo è il Far West, fra Regioni e aziende. Una lavoratrice della provincia di Piacenza mi ha segnalato che la sua azienda le ha chiesto l’esame degli anticorpi prima di rientrare al lavoro. Quelli attualmente adottati probabilmente vanno anche bene, ma non hanno una legittimazione dell’Istituto superiore della sanità. Dietro c’è un problema serio. Il test deve avere una ridotta probabilità di falsi positivi e falsi negativi, deve essere preciso nell’identificazione del tipo e della quantità di anticorpi, in particolare delle IgG che si sviluppano quando l’infezione è in atto da qualche giorno e durano nel tempo, anche se non sappiamo ancora esattamente quanto. Anche in questo caso, mentre il pubblico è fermo i privati offrono i loro test, inzialmente gratis, ma non certo per sempre.
Quali sono gli altri nodi principali per tornare al lavoro minimizzando i rischi di una “ricaduta” nell’emergenza?
Mi chiedo in queste settimane che cosa sia stato fatto, e chi controlla. Per riaprire è necessaria una riorganizzazione completa del lavoro. Diversificare gli orari di entrata e uscita, modificare il funzionamento della mensa, disporre le scrivanie a scacchiera, fornire dispositivi di protezione a chi lavora con mcchinari che non si possono spostare… E le sanificazioni? A proposito, qualcuno sta tenendo d’occhio, anche qui, i prezzi richiesti?
Poi ci sono gli interventi fuori dalle aziende.
A partire dai mezzi pubblici. I tornelli non li fai da un giorno all’altro. Poi ci vogliono nuovi cartelli sulla capienza e indicatori su pavimenti e sedili. E il potenziamento delle corse, per evitare che chi è in ritardo voglia salire comunque. L’altra grande questione è quella dei bambini nelle famiglie dove entrambi i genitori lavorano. Ne so qualcosa…
Con scuole asili chiusi quali soluzioni vede? I bambini tendono a non ammalarsi, per fortuna, ma si infettano e infettano.
Il bonus di 600 euro al mese non basta per la baby sitter. Servono luoghi e servizi dedicati esclusivamente ai bambini che hanno due genitori che lavorano, gestiti in modo da evitare contagi. In Norvegia hanno tenuto aperti gli edifici scolastici, con pochi insegnanti, solo per i figli di genitori entrambi lavoratori.
La sua è una voce critica del “modello lombardo”. Ha mostrato falle o stavolta lo tsunami avrebbe travolto qualunque sistema sanitario?
E’ stato uno tsunami, ma si poteva fare qualcosa per romperlo, in particolare nel periodo finestra fra l’individuazione dell’epidemia in Cina e la sua comparsa in Lombardia: un numero verde finalizzato a virus, che non si sovrapponesse al 118; la formazione del personale sanitario in base alle informazioni provenienti da Wuhan; tutelare i pronto soccorso; informare e coinvolgere i medici di famiglia. Nulla di tutto ciò è stato fatto. In una pandemia siamo a oggi l’unico Paese che ha avuto bisogno di medici stranieri. Direi che qualche errore di programmazione è stato fatto. L’eccellenza lombarda è indiscutibile su aspetti sofisticati, come l’alta chirurgia, non certo sulla sanità pubblica e la medicina territoriale.