C’è Gaetano che col suo camion sposta i container pieni di merci da Genova a Milano, Vicenza, Treviso e ritorno e non trova più un posto dove fare una doccia e mangiare un pasto caldo. Marta che ha dovuto scioperare perché la sua azienda – principi attivi per la farmaceutica – garantisse la sicurezza, dopo i primi casi di contagio tra i dipendenti. Federico che pedala otto ore per portare i pasti a domicilio e fa i conti con la concorrenza di chi per guadagnare qualcosa si è reinventato rider. Enea che fa il panettiere in un ipermercato e nonostante le code all’ingresso rischia la cassa integrazione. E poi Gianluca, Nelson, Arafat, Hamza, magazzinieri che smistano i pacchi con i nostri acquisti online e hanno tanti colleghi malati di Covid: tre sono morti. Alessandro invece si ritiene fortunato: la centrale elettrica in cui si occupa di manutenzione ha preso fin dall’inizio tutte le precauzioni. E non c’è stato nessun contagio.
In occasione della festa del Primo maggio, ilfattoquotidiano.it ha raccolto storie di lavoratori che si sono scoperti “essenziali” nell’Italia in cui quasi la metà dei 23 milioni di occupati ha perso reddito a causa del lockdown, qualche milione di persone attende ancora i soldi del primo mese di cig e il 75% dei dipendenti privati ha il contratto scaduto perché l’emergenza sta rallentando la firma dei rinnovi. Loro nonostante paure e disagi non si sono mai fermati. Senza retorica, sono stati in prima linea: mentre medici e infermieri combattevano il virus, hanno garantito i beni e servizi indispensabili per chi era chiuso in casa. Ma in questo Primo maggio in cui la piazza – virtuale – dei sindacati è dedicata al lavoro in sicurezza pochi se la sentono di festeggiare.
“Afflusso record, eravamo orgogliosi. Ora Carrefour chiede la cig” – “Siamo stati sempre aperti, domeniche e festivi compresi. Nelle prime settimane c’è stato un afflusso mai visto. I bancali di farina da rifornire ogni giorno, il lievito che finiva in un attimo… Eravamo orgogliosi di essere considerati così essenziali. Al tempo stesso andavamo a lavorare con la paura del contagio. Poi è arrivata questa doccia gelata”. Enea lavora da anni all’ipermercato Carrefour di Carugate, oltre 300 dipendenti, in maggioranza donne. Fa il panettiere, in questi giorni sta davanti al forno con la mascherina anche se non è il massimo della comodità. La doccia fredda è l’annuncio che il gruppo francese vuol chiedere la cassa integrazione in deroga per oltre 4mila dipendenti di 26 ipermercati del nord Italia “per fare fronte alla situazione di crisi causata dall’emergenza Covid-19”. “Dicono che i fatturati delle ultime settimane sono stati molto negativi anche a causa dei vincoli alla vendita dei prodotti non alimentari”, racconta Enea. “I carrelli in effetti sono meno pieni, forse la gente ha finito i soldi“. La procedura è già stata aperta, anche se la partenza della cig è rinviata a dopo un incontro con i sindacati convocato per il 5 maggio.
Tra i lavoratori dei magazzini tanti contagi e tre morti – “Prima dell’emergenza eravamo 170. Ora più di 50 sono in malattia e una quarantina di loro positivi al Covid. Un collega di 43 anni, filippino, è finito in terapia intensiva e dopo una settimana è morto. Un altro è ricoverato. Gli assenti sono stati sostituiti con lavoratori in somministrazione: molti credo arrivino dai centri di accoglienza“. Gianluca, studente universitario, da tre anni si mantiene facendo il magazziniere alla Ups di Carpi. E’ dipendente di una delle cooperative che lavorano in subappalto per il gruppo Usa delle spedizioni. Lì vengono scaricati e smistati verso le filiali i pacchi con i prodotti che compriamo online. “In mensa sono stati ridotti i tavoli e messi adesivi per invitare al distanziamento”, spiega. “Ma fino a fine marzo durante le pause uscivamo tutti insieme nel cortile…”. Eleonora Bortolato, sindacalista Si Cobas del coordinamento di Bologna, spiega che il sindacato ha chiesto un incontro alla prefettura senza ottenere risposta, mentre l’azienda il 20 aprile ha fatto sapere di aver “programmato di sottoporre a tampone tutto il personale”. Dal 17 aprile sono partiti i test sierologici – non tamponi – prima sui dipendenti Ups e poi su quelli in appalto.
“In tutte le aziende ci sono dei positivi”, taglia corto Arafat dal magazzino Leroy Merlin di Piacenza, dove ora i lavoratori sono in cassa integrazione perché le ore di lavoro sono state ridotte. “La Tnt di Piacenza ha dovuto chiudere per un paio di settimane perché ne aveva 12 e ci sono stati contagi tra i loro familiari”. Era dipendente di un altro magazzino Tnt, quello di Monza, Osvaldo: anche lui è morto di Covid-19. Come Christian Ramirez, facchino per la Brt a Sedriano, vicino a Milano. Nelson lavora in un magazzino che affaccia sullo stesso cortile e appartiene sempre al corriere espresso controllato da Poste Italiane: “Un altro collega è ricoverato”, racconta, “e anche la figlia, che fa l’autista, è positiva. I dispositivi di sicurezza ci sono: abbiamo guanti e gel, all’inizio ci hanno dato le Ffp3 e ora le mascherine chirurgiche. Quando è capitato che finissero, a fine marzo, un gruppo si è astenuto dal lavoro ma altri hanno continuato”. Ora lo preoccupa di più la sanificazione dei camion su cui carica le merci: “L’abbiamo chiesta ma non so se sia stata fatta”.
“Le mascherine? Sono fasce di garza e non c’è il marchio CE, chissà se servono a qualcosa…”, si chiede Hamza, corriere Sda nel magazzino di Modena. “Le consegne le devi fare comunque. Anche se magari vedi che davanti al palazzo dove stai andando a suonare c’è un camioncino che sta portando via un morto”. I Cobas hanno proclamato per il 30 aprile e l’1 maggio lo sciopero dei lavoratori della logistica in tutta Italia per chiedere il rispetto delle condizioni di sicurezza e il versamento puntuale degli ammortizzatori, in un settore in cui i più fortunati arrivano a guadagnare circa 1.500 euro con contratto full-time.
Nell’azienda chimica del Vicentino sciopero per ottenere sicurezza – “Non ci siamo mai fermati perché l’azienda produce principi attivi per i farmaci: un’attività essenziale. Avere la garanzia di lavorare in sicurezza però non è stato facile. All’inizio c’erano problemi a trovare le mascherine e nei laboratori, per chi usa la strumentazione, è complicato mantenere il distanziamento. A metà marzo, dopo la notizia dei primi casi di contagio, abbiamo scioperato“. Marta lavora alla Fis di Montecchio Maggiore (Vicenza), 1.200 dipendenti che lavorano su due o tre turni. I contagiati con tampone positivo sono una decina. I colleghi con cui avevano avuto contatti sono stati messi in quarantena. Ma non tutti quelli che sono stati in malattia con sintomi hanno avuto la possibilità di fare il test. “Dopo lo sciopero è stato potenziato lo smartworking, i turni sono stati riorganizzati e nelle lavorazioni è stata data priorità ai principi necessari per i farmaci di cui potrebbe esserci carenza nei prossimi mesi. In più ora all’ingresso vengono distribuite le mascherine e quasi tutti le portano”.
“Sul camion per giorni e ora non sappiamo dove lavarci e mangiare” – “Prendo il container a Genova, lo porto a Milano dove c’è un terminal che prende il contenitore vuoto, poi lo porto a Melzo e da lì vado ad Arluno, ne prendo un altro e lo vado a caricare a Vicenza. Da Vicenza lo porto a Padova dove lo imbarcano su treno, ne prendo un altro e lo vado a caricare a Treviso…”. Gaetano Renda, 61 anni, autotrasportatore da una quarantina, ha passato il periodo del lockdown su e giù per l’Italia settentrionale a spostare container pieni di merci necessarie per rifornire i supermercati o le aziende “essenziali“. In giro per giorni, anche un’intera settimana. E intanto i locali che erano le tappe usuali per far sosta, mangiare e farsi una doccia avevano abbassato le serrande. “Sono rimasti aperti solo gli autogrill, ma per alcune settimane solo fino alle 18. Ora fanno anche orario notturno, però non tutti sono attrezzati con le docce. E non si può mangiare all’interno: devi prendere il tuo caffè e andartene fuori”. Così in giornate di 9-10 ore di guida con in mezzo una pausa – e poi una notte sul camion – capita di non potersi lavare e se va bene si cena con un panino mangiato in cabina. Anche le aree self service sono chiuse, per un piatto caldo si aspetta di tornare a casa.
Per i rider più lavoro ma anche più concorrenza. E si lotta per uno slot – “Di lavoro ce n’è tanto, ma c’è anche più concorrenza. E tra noi c’è chi è più fortunato perché ha un compenso orario minimo e chi è pagato a cottimo. Loro hanno fretta, si avvicinano il più possibile alla vetrina del ristorante per far vedere l’ordine, si accalcano anche se adesso è un rischio“. Federico, 36 anni, è un veterano: fa il rider da anni, ora è il suo lavoro principale. Da quando è iniziata l’emergenza pedala otto ore al giorno. “E’ più faticoso e più scomodo. Prima di ore potevi farne sei e magari qualche volta prenderti una pausa, adesso non c’è neanche la possibilità di andare in bagno perché nei locali non si può entrare”. In compenso spera di guadagnare un po’ di più: 1.600 euro lordi, il massimo possibile per chi non ha lo scooter e conta solo sulla forza delle gambe. Ha la partita Iva, si ritiene fortunato perché da quando a dicembre Deliveroo gli ha chiuso l’account (“comportamento non idoneo”, non voleva salire a portare la consegna al piano) lavora solo per Justeat che paga 6,5 euro all’ora e a metà aprile ha distribuito le mascherine Ffp2. Niente gel disinfettante, quello l’ha comprato lui, né assicurazione, chi la vuole se la paga. Il vero problema, dice, è che con il lockdown “chi è fermo causa virus si reinventa rider oppure shopper nei supermercati, come il tassista che ho incontrato ieri. Quindi c’è la lotta per prendersi gli slot orari“.
Al lavoro nella centrale elettrica con tute e maschere filtranti – “Le tute con il cappuccio le abbiamo sempre usate. Per noi l’unica novità sono state le maschere ffp3 con filtri laterali: lavorare per otto ore con quelle addosso non è facile, ma almeno siamo in sicurezza“. Alessandro lavora in un’azienda dell’indotto della centrale Enel di Civitavecchia, si occupa di manutenzione. L’energia è ovviamente un bene essenziale, quindi la centrale e le attività collegate non si sono mai fermate. Ma sono state prese tutte le precauzioni: “Igienizzanti per le mani, dpi, distanza di 2 metri quando possibile, misurazione delle temperatura all’entrata e all’uscita. E chi entra per la prima volta deve dichiarare di non venire da zone con focolai, altrimenti gli viene chiesto di stare in quarantena. Finora non c’è stato nessun caso di contagio”.