Il pallone che arriva rasoterra dalla sinistra ai 20 metri, quasi sul vertice d’area, di crossare uno che ha imparato a giocare a pallone tra i vicoli non ci pensa neppure, un tiro normale finirebbe in bocca al portiere e allora via, le tre dita esterne del destro a colpire il pallone più forte che si può. Verrebbe da dire alla Roberto Carlos, che in quel momento però è un giovincello del Palmeiras e il Torneo di Francia si giocherà tra tre anni. Chi si è visto si è visto. Il tiro è perfetto, coglie l’interno del palo e finisce dentro battendo Ielpo: roba da far venir giù San Siro, che però ammutolisce, perché il gol non arriva da uno dei tanti campioni rossoneri, ma da un tipetto in maglia granata coi capelli alla Maradona, Max Esposito da Materdei, cuore popolare di Napoli.

San Siro ammutolisce, Massimiliano esulta: quel gol, del Primo Maggio 1994, 26 anni fa, non sarà nella grande storia del calcio ma nella piccola storia della Reggiana sì. Sì, perché quel gol salva i granata, a San Siro contro il Milan già abbondantemente campione d’Italia: “Ma prima ci fu l’assalto – ricorda Esposito – con Taffarel che dovette fare gli straordinari su Massaro e gli altri campioni del Milan. Ma finì così e ci salvammo”. Qualcuno dirà che i rossoneri non avessero granché voglia di vincere, per nulla restii all’idea di far retrocedere i cugini dell’Inter che in un’annata disastrosa stavano perdendo, e persero, anche a Bergamo contro l’Atalanta. Ma Esposito smentisce: “Non è vero, l’Inter era già praticamente salva dalla giornata precedente e il Milan cercava i record, infatti dopo il mio gol attaccavano a testa bassa. Noi eravamo andati a San Siro sperando in un pareggio, dico la verità, che ci avrebbe permesso di andarci a giocare lo spareggio col Piacenza e invece grazie a quel gol ci salvammo direttamente, perché la squadra di Cagni pareggiò col Parma”.

Roba che a Reggio Emilia ancora ricordano e che Esposito ancora porta nel cuore: “In quel finale di stagione feci 4 gol importantissimi in 7 partite: quello col Milan, ma anche con la Samp nella giornata precedente, dopo che Pagliuca mi aveva parato di tutto. Da allora ho molti amici a Reggio e porto dentro città, tifosi e maglia. Seguo ancora la squadra quando posso: ho il cuore per tre quarti azzurro e un quarto granata”. Comincia da lì a splendere la stella di Max Esposito: ala classica, colpi importanti, vizio del gol. “Ero uno che puntava sempre l’uomo e 9 volte su 10 lo saltavo, però difendevo poco e quindi nella maggior parte dei casi gli allenatori preferivano tenermi come arma da schierare a partita in corso, preferendo colleghi più inclini alla fase difensiva, alla corsa, nella fase iniziale”. Eh già, perché Max, con quelle caratteristiche in una fase in cui il calcio è difesa e contropiede attira l’attenzione di Zeman che con le ali offensive dal dribbling facile ci va a nozze: “Mi aveva cercato già ai tempi di Foggia, però alla Lazio dell’epoca, quella di Boksic, Casiraghi, Di Matteo e tanti altri campioni, non si poteva dire proprio di no”.

E Max inizia col botto: “Doppietta al Piacenza alla prima di campionato, e la Serie A si ferma subito dopo per la nazionale: rimasi capocannoniere assieme a Ravanelli per tre settimane”. Ed Esposito viene prima di Ravanelli: “Perciò mi divertivo a lasciare la pagina del Televideo aperta per guardare il mio nome in cima alla classifica marcatori”. Ma dopo la nazionale la A riprende e per i tre posti in attacco la Lazio ha gente come Signori, capitano e idolo biancoceleste, Boksic, Casiraghi, Fuser, Rambaudi. Nonostante quella concorrenza Esposito colleziona una ventina di presenze, ma è giovane, giustamente ambizioso e vuol giocare. “Sapevo che il Napoli era su di me. Alla Lazio non volevano partissi, Zeman me lo fece capire a modo suo dicendomi :“Io non ho mai bruciato un giovane”. Persino Zoff mi prese da parte facendomi capire che “i presidenti restano, gli allenatori passano”, ma Napoli è casa, volevo giocare e accettai”.

L’inizio con Simoni è col botto: in amichevole con l’Olmpyakos al San Paolo ne fa uno dei suoi, spalle alla porta, palleggio e rovesciata in gol, col Monza in Coppa Italia la mette nel sette su punizione e avvia la cavalcata che porterà gli azzurri in finale col Vicenza: “Una squadra di uomini quel Napoli: pieno di problemi, tra debiti e stipendi non pagati, ma vivemmo una stagione che a dicembre ci vedeva secondi in classifica grazie a tanti uomini e ai napoletani come me, Pino Taglialatela e Nicola Caccia. Poi il giocattolo si ruppe per vari motivi, tra questi la firma di Simoni con l’Inter per l’anno dopo”.

Nella stagione successiva, nonostante una campagna acquisti sulla carta importante con gli arrivi di Rossitto, Protti, Bellucci, Esposito decide di andar via. E pur di andarsene accetta di scendere in B, a Verona: “Avevo annusato che c’era qualcosa che non andava, c’era uno scollamento fortissimo tra il tecnico (all’epoca Mutti) e la società. Avevo il sentore di quel che sarebbe accaduto (la peggior stagione della storia del Napoli, con 14 punti e retrocessione in B dopo 33 anni): io da napoletano non sarei mai riuscito a sopportare una scena come quella di Pino Taglialatela sul campo in lacrime, e ho preferito andar via”. Torna brevemente a Napoli in B, poi va a Perugia, e qui Max risulta decisivo anche nella storica partita che tolse lo scudetto alla Juve, quando con un colpo tipico del suo repertorio (palla indietro di suola e poi via di tacco all’avversario), fa espellere Zambrotta.

E poi Brescia, con Baggio: “Un mito assoluto, campione di una calma e di una serenità d’animo assoluta: ci sentiamo ancora con Roby”. E Guardiola: “Altro campione nell’animo. Racconto un aneddoto: dopo Brescia non l’ho più sentito tanto, finché nel 2017 il suo City è venuto a Napoli. Dopo la partita volevo salutarlo e sono andato in albergo, non avevo il suo numero e la sicurezza naturalmente non mi faceva salire. Lì sono passati due magazzinieri del City che sento parlare in romanesco, uno di loro mi riconosce ‘Aò ma te sei Esposito, quello d’a Lazio’ gli spiego che avrei voluto salutare Pep, loro lo avvertono e Guardiola nonostante stesse cenando si è precipitato, mi ha abbracciato davanti a tutta la squadra ed è stato un bel po’ a chiacchierare con me. In pratica tra gente come De Bruyne, Sané, Aguero ero diventato io l’ospite d’onore. Alla fine visto che aveva interrotto la cena per stare con me sono stato io che l’ho salutato: ecco, questo è Guardiola”.

Un campionissimo lo aveva avuto come compagno anche a Reggio: “Paulo Futre, un calciatore di una forza d’animo e di una classe incredibile, ma alla prima gara con noi segnò e si infortunò gravemente. Andai a trovarlo in ospedale: era lui che incoraggiava me, un campione vero. Ma come calciatore il vero Futre è stato quello dell’Atletico Madrid”. Oggi Esposito allena, lavora coi giovani del Padova. E tra i ragazzi oggi è difficile trovare quella genuinità, quel lampo di follia che invece era il “plus” per folletti come Esposito : “Non amo fare paragoni anche perché è ingiusto, ogni epoca ha il suo calcio, che il nostro fosse più tecnico si può dire. Oggi però è obiettivamente difficile trovare un ragazzo che punta e salta l’uomo perché, nella maggior parte dei casi, se vedi l’esterno alto a tu per tu col terzino senti l’allenatore che gli chiede “Giocala!”. Ecco, prima ho citato Guardiola: molti lo imitano e questi sono i risultati. Però ci si sta ravvedendo, ci vuole tempo”. Ci vuole tempo e ci vuole coraggio, lo stesso che ti fa tirare d’esterno da fuori area a San Siro all’ultima giornata, quando sei con un piede in B: magari finisce in curva, magari salvi la Reggiana ed entri nel cuore di una città.

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