Gli ospedali libici, già al collasso a causa dei numerosi feriti provocati dalla nuova escalation militare dovuta all’offensiva del generale della Cirenaica, Khalifa Haftar, e con già pochi mezzi a disposizione per sopperire alla crisi umanitaria che da anni affligge il Paese, si trovano adesso ad affrontare un nuovo nemico: l’epidemia di coronavirus.

Il 24 marzo è una data spartiacque per la Libia. Nel mese più cruento della campagna militare da quasi un anno a questa parte e col bilancio di vittime e feriti più alto (113 tra le fila del cosiddetto Esercito nazionale libico del generale Haftar e 77 tra quelle del Governo di Accordo Nazionale del primo ministro Fayez al-Sarraj, riconosciuto dall’Onu, senza contare quelle civili), si è registrato il primo caso di Covid-19. Un mese dopo, nei rapporti delle Nazioni Unite e di alcune organizzazioni internazionali, in particolare della statunitense Imc (International medical corps) e la sua squadra sul terreno Hat (Humanitarian access team), appare evidente come il rischio pandemico sia non solo concreto, ma addirittura già in atto: “Se la Libia vuole affrontare l’aggressione del coronavirus, il conflitto deve terminare all’istante. Gli ospedali e le sale operatorie sono piene di feriti d’arma da fuoco e non riescono ad accogliere altri pazienti. Non esistono piani per la quarantena e pratiche di isolamento, inoltre non si sa come separare pazienti Covid e non, come trattare i casi sospetti. Le diagnosi Covid-19 aumenteranno anche a causa del rientro in patria di molti libici da paesi limitrofi, Tunisia ed Egitto in particolare, ma anche dalla Turchia” è il riassunto dell’analisi di Hat.

L’uomo forte di Bengasi, dal 4 aprile 2019, quando ha fatto saltare il tavolo per il processo di dialogo con al-Sarraj mediato dall’Onu, si è impegnato in una battaglia campale per spazzare via il rivale arroccato nella capitale Tripoli. I suoi affondi non hanno tuttavia portato al successo, nonostante un iniziale accerchiamento delle posizioni nemiche, specie attorno agli strategici centri portuali di Zuwara e Sabratah, a ovest di Tripoli, la seconda di recente riconquistata dal Gna. La stessa battaglia per stanare al-Sarraj, agendo dalla periferia sud-orientale della capitale, non ha prodotto gli effetti sperati. I violenti combattimenti a Tarhouna, una novantina di chilometri da piazza dei Martiri, il cuore storico di Tripoli, hanno soltanto causato morti e feriti, ma non sensibili conquiste di territorio e posizioni.

Ora, dopo settimane di generale stallo, la forza propulsiva dell’Lna si è affievolita e la comparsa sullo scenario militare della minaccia coronavirus ha spinto Haftar a un’irruzione a gamba tesa. Forse è un segno di debolezza o un’ammissione di impotenza la sua scelta di autoproclamarsi comandante unico della Libia, una sorta di colpo di Stato, con un messaggio televisivo dalla sua base di Bengasi in Cirenaica. Una decisione, quella di mettere a cuccia il parlamento di Tobruk, poco gradita dai suoi sostenitori, tra cui le tribù che fino ad oggi gli hanno dato corda, oltre che da avversari e organismi internazionali. Una scelta dettata dalla difficoltà, tanto che nella notte di mercoledì un portavoce del Lna ha dovuto dichiarare lo stop a tutte le operazioni militari. Una richiesta respinta dal Governo al-Sarraj: “Non ci fidiamo dell’invasore abituato ai tradimenti, continuiamo a difendere Tripoli”.

Forse il suo è stato un estremo tentativo di attirare a sé le attenzioni di una nazione spaccata in mille rivoli prima che la nuvola nera della pandemia spazzi via pure lui. Martedì 24 marzo le autorità sanitarie libiche hanno confermato il primo caso positivo. Entro la fine del mese l’Ncdc (National center for desease control) ha registrato 8 nuovi casi su 312 test effettuati e anche la prima vittima. In un mese i numeri sono ovviamente aumentati, per arrivare a 68 casi e due morti. Statistiche comunque insignificanti se messe a confronto, ad esempio, con quelle di una qualsiasi regione italiana.

La diffusione del virus in Libia a livello ufficiale corre più lentamente che altrove, ma parlare di ufficialità in un Paese dove ci sono un paio di dispositivi per processare i tamponi (Pcr) e dove mancano i reagenti è abbastanza complicato. Per non parlare dei posti letto e soprattutto dei ventilatori. Negli ospedali libici sono a disposizione all’incirca 500 posti letto Covid: 100 a Tripoli, 217 a Bengasi, 65 a Zintan, 30 a Sabratah e Ghat, 35 a Kufra, appena 8 a Sebha. Sono meno di 200 i ventilatori complessivi: 100 a Tripoli, 1 per posto letto. Ma altrove non va così bene, 22 a Bengasi, 20 a Misurata, 10 a Sabratah, 6 a Zintan e Kufra e appena a Ghat.

Chi vive a Tripoli o Bengasi ha una chance in più di ammalarsi ma anche di curarsi. Se il numero dei contagi dovesse effettivamente aumentare a livelli esponenziali non ci sarebbe una rete in grado di affrontare l’emergenza e gli effetti del contagio sarebbero devastanti. Paradossale quanto accade nelle aree più periferiche, ad esempio a Ghat, al confine con l’Algeria e città-chiave nel contrasto all’immigrazione clandestina dai Paesi del Sahel. La minaccia del Coronavirus ha fatto scappare tutti i medici in servizio nell’ospedale pubblico della città, ora desolatamente vuoto. Stando a fonti umanitarie, mancano i dispositivi di protezione per il personale medico, mascherine, guanti e camici, e gli apparati per la sterilizzazione degli ambienti e degli strumenti. Posti letto e ventilatori ci sarebbero, ma per validare i tamponi bisogna portare i campioni all’ospedale di Sebha, a 570 chilometri di distanza, o di Tripoli, 1.400 chilometri, perché a Ghat mancano il macchinario per processare i test e i reagenti.

Sebha, appunto. Grande città interna della Libia dove le tecnologie non mancano e dove c’è addirittura un ospedale universitario. Qui il problema è un altro, ossia le forti tensioni sociali tra le due tribù principali, Tebu e As, capaci di rendere instabile l’intero territorio regionale. Analogo discorso per Kufra, dove ci sono addirittura due ospedali: quello principale, Attia al-Kasih, ha letti e ventilatori (25 e 5) ed è controllato dalla tribù Zwai, mentre i Tebu hanno il controllo su quello di al-Shoura con 10 posti Covid e 1 ventilatore. Quello di Kufra è il distretto più remoto, a sud-est della Libia, compone il tri-confine con Egitto, Ciad e Sudan, snodo cardine di tutto il flusso migratorio dal Corno d’Africa e parte del Ciad, altro bacino di potenziali contagi di importazione. Se ad ovest Ghat accoglie tutti i migranti nel passaggio attraverso Algeria e Niger prima di salire verso Tripoli e la costa occidentale, Kufra funge da collettore per il trasferimento dei disperati a Bengasi, la città di Haftar, dove a livello di sicurezza le cose vanno piuttosto male.

A passarsela peggio, alla luce della nuova minaccia pandemica, sono proprio gli africani in cammino verso l’Europa attraverso il Mediterraneo. I centri di detenzione non sono più affollati come in passato, specie tra il 2016 e il 2018, molti sono stati chiusi e accorpati, specie quelli sotto l’egida dell’Unhcr in Tripolitania, ma alcune migliaia di persone restano ancora in condizioni terribili, in particolare chi finisce nelle mani delle bande che gestiscono i centri non ufficiali collegati ai trafficanti. Quelli di Tripoli aprono e chiudono a seconda dei bombardamenti, quelli nei centri lungo la Coastal road (la litoranea che collega Tripoli al confine tunisino di Ras Agedir, chiuso su decisione di Tunisi per limitare il rischio di contagio da coronavirus) sono sotto la minaccia dell’Lna. Il centro di Zawia è stato svuotato e chiuso. Restano attivi quelli a Souq al-Qamis, Zuwara (nonostante la città sia minacciata da vicino dalle truppe di Haftar) e Thaher al-Jabel.

Per le autorità libiche, specie il Dcim (il dipartimento per il controllo dell’immigrazione clandestina che gestisce i centri ‘ufficiali’) è diventato difficile garantire l’arrivo di pasti e beni di prima necessità nei detention centre, vuoi per le difficoltà ricordate, ma anche per i mancati accordi sul pagamento delle derrate con le società private.

Il flusso di migranti da sud è rallentato, ma non fermo. A fine marzo le autorità libiche hanno respinto in Niger 400 persone transitate attraverso Madama (Niger) e Gatrun (Libia) e qui fermate e deportate. Tuttavia il numero di africani, saheliani per la quasi totalità, in transito a sud-ovest è continuo e fuori controllo anche a causa delle limitazioni provocate dalla minaccia pandemica. In 200 sono stati intercettati a Sebha, altri 70 a Ajdabia e in questo caso non deportati, bensì trasferiti in un centro di detenzione di Bengasi.

In Libia non scappano solo i migranti. Gli sfollati interni, i libici in fuga da zone di guerra o di contagio, se la passano altrettanto male, senza un piano di accoglienza definito e sicuro. Fuggire da Tripoli non è facile perché molte strade sono state chiuse e alcuni collegamenti bloccati per contenere la diffusione del contagio. Intanto il costo della vita è in vertiginoso aumento, dai carburanti ai prodotti alimentari. Folle la crescita dei prezzi di pomodori, patate e cipolle, addirittura raddoppiati ad aprile, mentre il Gna ha cercato di tamponare la piaga alimentare inviando forniture di farina e zucchero nelle aree più povere del territorio controllato.

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