Il Covid-19 ci ricorda che non c’è una cultura della prevenzione epidemiologica sebbene la malattia sia un evento ricorrente ed è parte della storia dell’umanità. A confermare l’urgenza di strutturare una cultura diffusa per il contenimento delle pandemie, così come è stato fatto e si sta facendo per la prevenzione delle calamità naturali e dei cambiamenti climatici, basti pensare che nell’ultimo secolo a partire dal 1918 si sono verificate 11 tra epidemie e pandemie virali. Eppure il Covid-19 sembra aver colto tutti alla sprovvista.
Come possiamo costruire, allora, strategie e politiche di prevenzione epidemiologica? L’architettura può essere uno degli strumenti di contenimento delle pandemie? Un edificio può aiutare a proteggere i suoi abitanti da epidemie e pandemie? Come vivremo gli spazi pubblici? Come possiamo proteggere le fasce più deboli della società da questo tipo di emergenza? Permetteremo allo stato di controllare e definire i nostri spostamenti, di condizionare le nostre relazioni sociali, se questo significa proteggersi dalle emergenze future?
Queste sono alcune delle domande che si sono posti gli architetti del Master “Emergency & resilience” dell’Università Iuav di Venezia diretto dal prof. Jorge Lobos, architetto e responsabile scientifico del master, che attraverso questo programma di specializzazione post-laurea forma professionisti che siano capaci di mettere a punto strategie di intervento in caso di emergenze umanitarie: catastrofi naturali, cambiamenti climatici, conflitti di guerra.
Chi lavora sugli spazi della vita sociale è chiamato a dare un contributo, perché la pandemia non può rimanere senza risposte lasciando campo libero alle paure di un futuro immaginato, dove le persone vivono isolate in spazi igienici autosufficienti, come rappresenta l’artista argentino Tomás Saraceno con le sue “Biosfere”.
Il distanziamento sociale è un tema progettuale, la messa in sicurezza delle grandi aree urbane dal pericolo epidemiologico è la nuova grande sfida per gli architetti.
Lo storico israeliano Yuval Noah Hararici ci ricorda che in queste settimane di emergenza epidemiologica i normali processi decisionali sono stati stravolti: quello che in tempi normali un governo avrebbe deciso in anni è stato deliberato in poche ore; è una accelerazione necessaria che può rivelarsi strategica per il futuro, perché il rischio di non far nulla è più grande del rischio di agire e reagire.
E’ quindi il momento di porsi delle domande e prepararci alla riorganizzazione degli spazi collettivi: gli spazi pubblici; le reti per la mobilità, porti, aeroporti, stazioni; le reti di trasporto urbano e metropolitano; i centri culturali e sportivi; le strutture sanitarie e scolastiche; gli impianti produttivi.
“Forse dovremmo immaginare una società urbana in grado di suddividersi rapidamente in piccoli gruppi isolati o ‘cluster urbani’ con un’alta capacità autosufficiente e un alto grado di dipendenza dalle reti di comunicazione globali?” si chiede Jorge Lobos. Forse la risposta potrebbe essere una sorta di “città elastica”, con la capacità di aprire i suoi confini a tutti, in momenti di pace e prosperità, per poi chiuderli, frammentandosi in piccoli gruppi autonomi e isolati, durante un periodo di emergenza sanitaria o crisi climatica.
La maggioranza della popolazione mondiale è unita dall’esperienza portata dall’attacco del Covid-19, stiamo prendendo parte a una sorta di esperimento sociale su una scala mai concepita prima: cosa impareremo da questa crisi della civiltà e quale eredità lasceremo?