Il Covid-19 ci ricorda che non c’è una cultura della prevenzione epidemiologica sebbene la malattia sia un evento ricorrente ed è parte della storia dell’umanità. A confermare l’urgenza di strutturare una cultura diffusa per il contenimento delle pandemie, così come è stato fatto e si sta facendo per la prevenzione delle calamità naturali e dei cambiamenti climatici, basti pensare che nell’ultimo secolo a partire dal 1918 si sono verificate 11 tra epidemie e pandemie virali. Eppure il Covid-19 sembra aver colto tutti alla sprovvista.
Come possiamo costruire, allora, strategie e politiche di prevenzione epidemiologica? L’architettura può essere uno degli strumenti di contenimento delle pandemie? Un edificio può aiutare a proteggere i suoi abitanti da epidemie e pandemie? Come vivremo gli spazi pubblici? Come possiamo proteggere le fasce più deboli della società da questo tipo di emergenza? Permetteremo allo stato di controllare e definire i nostri spostamenti, di condizionare le nostre relazioni sociali, se questo significa proteggersi dalle emergenze future?
Queste sono alcune delle domande che si sono posti gli architetti del Master “Emergency & resilience” dell’Università Iuav di Venezia diretto dal prof. Jorge Lobos, architetto e responsabile scientifico del master, che attraverso questo programma di specializzazione post-laurea forma professionisti che siano capaci di mettere a punto strategie di intervento in caso di emergenze umanitarie: catastrofi naturali, cambiamenti climatici, conflitti di guerra.
Lo storico israeliano Yuval Noah Hararici ci ricorda che in queste settimane di emergenza epidemiologica i normali processi decisionali sono stati stravolti: quello che in tempi normali un governo avrebbe deciso in anni è stato deliberato in poche ore; è una accelerazione necessaria che può rivelarsi strategica per il futuro, perché il rischio di non far nulla è più grande del rischio di agire e reagire.
“Forse dovremmo immaginare una società urbana in grado di suddividersi rapidamente in piccoli gruppi isolati o ‘cluster urbani’ con un’alta capacità autosufficiente e un alto grado di dipendenza dalle reti di comunicazione globali?” si chiede Jorge Lobos. Forse la risposta potrebbe essere una sorta di “città elastica”, con la capacità di aprire i suoi confini a tutti, in momenti di pace e prosperità, per poi chiuderli, frammentandosi in piccoli gruppi autonomi e isolati, durante un periodo di emergenza sanitaria o crisi climatica.
La maggioranza della popolazione mondiale è unita dall’esperienza portata dall’attacco del Covid-19, stiamo prendendo parte a una sorta di esperimento sociale su una scala mai concepita prima: cosa impareremo da questa crisi della civiltà e quale eredità lasceremo?