Ho un fratello che vive a Torino, carne e spirito in simbiosi anche se non ce lo diciamo. Partito anni fa per studio, rimasto per carriera, intrappolato per virus, dal 4 maggio potrebbe rientrare a casa sua, al Sud, da affetti che non chiederebbero altro. Lui però non torna e io gli dico che fa bene. Mentre lo ripeto la lingua si fa amara, ma ho tre ragioni.
Innanzitutto per lui: anche se l’Italia è già distratta pensando ai plexiglass sul bagnasciuga, il Piemonte è in piena fase 1. Il penultimo giorno di aprile si è orribilmente chiuso con 66 decessi, di cui 34 nel Torinese: entrambi i dati in rialzo. E anche i contagi sono in aumento: 457 in regione, di cui ben 313 in provincia di Torino, quasi cento più del giorno prima.
Quella maledetta curva, una parabola che pare fatta di filo spinato, lì non sta ancora calando. Il Piemonte è una delle terre più fiere d’Italia: coraggio amici, piegatela a forza, state in casa.
Con questa situazione, mai direi a mio fratello di prendere non so quanti bus, cambiare quante metro, addensarsi nella hall di un aeroporto e sigillarsi nello spazio pressurizzato di un aereo. Saranno state predisposte tutte le misure anticontagio, non lo metto in dubbio, ma dopo due mesi di sopportazione, di attenzione maniacale per schivare ogni colpo di tosse, perché rischiare proprio adesso?
Il secondo motivo è per la nostra famiglia: tornare vorrebbe dire sottoporsi a un obbligo di isolamento di almeno 15 giorni più l’attesa di un tampone. Chiuso in casa, qui al Sud, barricherebbe con lui anche i nostri genitori, tutti in quarantena precauzionale sotto lo stesso tetto: non potrebbero semplicemente permetterselo.
La terza ragione è per il buonsenso che chi è rimasto su, evitando di fuggire isterico di notte mettendo a repentaglio se stesso e tutti, ha già dimostrato di avere. Tra questi ragazzi, è un fatto, potrebbero esserci degli asintomatici, come ce n’erano nell’esodo del 12 marzo che ha disseminato buona parte dei contagi meridionali.
Sono stato un fuori sede, anzi un emigrato, per otto anni e conosco l’asprezza della malinconia. Vivi in una terra in cui non ti manca niente a parte la tua terra. Ma la distanza non ha mai ucciso, il virus sì. Se si resta lontani per tre o quattro mesi tra una festività e l’altra, lo si può fare anche per sei o sette. Pazienza, quest’anno è dura per tutti.
Un paio di appelli, infine, vorrei farli anche a chi vive al sud. Ai genitori di questi ragazzi, che spesso al telefono ansimano più dei loro figli: lasciateli tranquilli; stanno bene, conta questo. E a chi non ha legami con loro, perfino a una certa politica, che vedono annidata in studenti e giovani lavoratori tutta la pestilenza intera e li respingono con ferocia anche se da Torino o da Milano non si sono ancora mossi. Questi ragazzi non sono untori, sono vittime; che al malessere del lockdown sommano gli affanni della distanza. Ma ragazzi se tornate adesso, di corsa, a casa, potrebbe anche essere peggio.