“Sono un medico di Medicina Generale di Busto Arsizio, mi chiamo Chiara De Bernardi e anche io sono stata colpita da una polmonite interstiziale, che fortunatamente non ha richiesto il ricovero. Ho vissuto dunque l’esperienza del COVID19 sia da medico che da paziente.
Dal 24 febbraio ad oggi, noi medici di famiglia non abbiamo potuto fare il nostro lavoro come eravamo abituati, abbiamo dovuto rinunciare a gran parte del nostro compito, direi quello fondamentale, che è la visita e la prescrizione di accertamenti. Non potevamo visitare in modo approfondito perché la maggior parte del tempo lo abbiamo passato al telefono, se il paziente aveva sintomi respiratori o similinfluenzali. Anche chi veniva in ambulatorio per altre problematiche non poteva fermarsi a lungo, a causa del rischio per loro e per noi. Non potevamo andare al domicilio se non a nostro rischio e pericolo, tanto esigua e inadatta è stata la fornitura di DPI. Con alcuni colleghi abbiamo disperatamente cercato di procurarceli autonomamente, come ATS ci ha imposto in attesa di forniture ufficiali che non sono mai arrivate in modo significativo.
Ogni giorno sentivo e sento tuttora i miei pazienti in isolamento domiciliare, sperando che mi venga detto che sono migliorati. In caso contrario c’è solo l’attesa del momento in cui diventano ‘abbastanza gravi’ da poter avere accesso al Pronto Soccorso tramite il 112. Non riusciamo a fornire ossigeno, da alcuni giorni le USCA ci hanno sostituito per la visita ai nostri malati, probabilmente perché costava meno fornire i DPI a poche persone, ma anche questo servizio pare sia da usarsi con cautela per scarsità di risorse.
La mia malattia è iniziata con una febbricola che all’inizio ho attribuito ad una sudata fuori dal supermercato. Non avevo tosse né altri sintomi respiratori, ma ho preferito assentarmi qualche giorno dallo studio per sicurezza. Tra le altre cose mi ero già messa in contatto con un giovane collega neolaureato che aveva accettato di sostituirmi per permettermi di rimanere a casa qualche settimana per occuparmi di Silvia, mia figlia autistica, disabile al 100%, che dall’inizio dell’epidemia non aveva potuto frequentare come gli altri le lezioni online finché i Comuni non hanno sbloccato i contratti delle educatrici, cosa che è avvenuta solo tre settimane dopo l’inizio delle lezioni a distanza. Io lavoravo, mio marito anche perché la sua ditta non è chiusa, mia suocera veniva da noi tutte le mattine nonostante mio suocero sia gravemente cardiopatico. Due ore al giorno veniva la nostra amica Paola che coraggiosamente si era offerta di aiutare Silvia nei compiti e non ci ha mai abbandonato in questo periodo.
Dopo qualche giorno è comparsa la tosse. Ho dovuto prendere una decisione dolorosa: non permettere più a nonna e alla mia amica di entrare in casa nostra. In pochi giorni sono piombata in uno stato di prostrazione fisica e malessere che ho riconosciuto essere una polmonite. Sentivo la mia collega, il mio medico di base, tutti i giorni come io avevo fatto con i miei assistiti, ma non poteva visitarmi a casa, non glielo avrei nemmeno permesso. Non riuscivo neanche ad alzarmi dal letto per andare al bagno, doveva aiutarmi mio marito, nel frattempo posto in quarantena. Entrambe le mie figlie erano a rischio, perché Silvia non accettava di starmi a distanza.
Dopo cinque o sei giorni di febbre, fortunatamente senza desaturazione, è arrivata una circolare di ATS per cui era possibile prescrivere TAC torace ed esami del sangue a chi presentava sintomi respiratori a lenta risoluzione. Era il mio caso, il mio medico mi ha subito prescritto la TAC che ho eseguito in Humanitas a Castellanza. Anche qui, il problema: chi mi avrebbe accompagnato? Non mio marito, che non poteva uscire di casa, non altri amici o familiari, per timore del contagio.
Ho chiamato un trasporto a pagamento, che ha anche provveduto al pagamento del ticket facendomi un favore grande (“Ma come, signora, è da sola? Come fa a pagare il ticket? No, non abbiamo un IBAN…). La polmonite era stata confermata dalla TAC, fortunatamente di lieve entità e già in parziale risoluzione. Dopo alcuni giorni ATS mi ha tamponato al domicilio, perché mi sono decisamente rifiutata di recarmi in via Rossi a Varese nel tendone della CRI, perché non avrei saputo come arrivarci ed ero ancora troppo debole.
Avevo assoluta necessità di sottopormi al tampone perché dovevo sapere se potevo far entrare in casa mia le persone che mi aiutano con Silvia. Lei era in uno stato di estrema agitazione, il giorno che mi sono dovuta assentare per la TAC ha avuto una crisi di angoscia perché temeva che non tornassi. Al mio ritorno mi ha assestato un bel paio di calci, poi si è sdraiata nel letto accanto a me, piangendo a lungo e rimanendomi abbracciata… alla faccia dell’isolamento. Il primo tampone è risultato negativo, ora attendo il secondo e devo dire che non ho alcuna fretta di farlo, mi sto godendo il primo periodo di serenità dopo tanto tempo.
Sono tornata però al lavoro telefonicamente, di supporto al mio collega Davide, che ringrazio per l’abnegazione e la professionalità che sta dimostrando pur nella sua giovane età. Ringrazio infinitamente anche la mia segretaria Barbara, che non si è mai assentata un giorno dal suo posto – e che non è stata mai contattata da nessuna autorità competente per un tampone o per una intervista sul suo stato di salute pur essendo stata accanto a me ogni giorno. Un pensiero affettuoso va anche ai miei pazienti che hanno chiamato per avere un consiglio telefonico ma spesso anche solo per sapere come stavo.
La tentazione di lasciare il mio posto però si fa insistente: ne ho fin sopra i capelli delle mail quotidiane di Regione ed ATS, farraginose, fredde e spesso inutili, come se fossimo ingranaggi di una macchina che non deve fermarsi. Bisogna “evitare assolutamente che il medico si contagi e si ammali, anche per salvaguardare la continuità delle cure e per evitare che diventi veicolo di infezione”. Non bisogna visitare senza DPI adeguati; le persone con segni e sintomi di infezione non devono venire in studio; occorre identificare i soggetti COVID solo su base clinica con triage telefonico perché non è prevista l’esecuzione di tamponi…
Non abbiamo tuttora DPI adeguati, con tutto il tempo che è passato, non ci viene fornito alcool e gel per le mani, che fatichiamo come tutti a trovare nei supermercati o su internet. Non ho più voglia di lottare contro i mulini a vento, trovarmi ogni giorno davanti a pazienti in forte difficoltà che non riesco ad aiutare come vorrei, non ho più la forza soprattutto di fronteggiare una amministrazione distante, a cui basta ripetere che non ci sono problemi e che stanno facendo tutto il possibile ma che non ci ha mai ascoltato e che non ci ascolta nemmeno adesso.
Mentre i Comuni, ATS e le Regioni discutono di chi sia la responsabilità di questa debacle a livello territoriale, noi MMG abbiamo sperimentato una disparità enorme di trattamento tra i pazienti gravi, trattati in ospedale, e i pazienti non ospedalizzabili, che hanno vissuto e stanno vivendo con angoscia l’evoluzione della loro patologia a casa senza un supporto medico adeguato, senza la certezza di sapere a che punto è l’evoluzione della loro situazione, mentre la TV continua ad insistere giustamente che si tratta di un’epidemia imprevedibile. Se ci fosse stato permesso di visitare a casa (con le adeguate protezioni) avremmo evitato molti accessi agli ospedali, dove si poteva andare solo se gravissimi: quindi chi era malato a casa, senza cure, si è aggravato ed è andato in ospedale.
Per un mese intero non abbiamo potuto prescrivere nemmeno una lastra per accertarci delle condizioni dei nostri pazienti isolati in casa, le altre patologie non esistono più, tutto è congelato. Anche oggi, giorno di Pasqua, mentre scrivo, penso intensamente ad una mia paziente, una giovane donna che, ricoverata in ospedale da diversi giorni, è improvvisamente peggiorata ed è stata trasportata a Milano dove è stata intubata.
Penso ad un papà di due bambini che dopo giorni di febbre, trattata empiricamente a casa con antibiotici ed antipiretici, è stato portato al Pronto Soccorso per un peggioramento della saturazione. Ma penso anche ad un mio paziente oncologico a cui è stata per l’ennesima volta rimandata la radioterapia per problemi logistici e che a causa di questi ritardi è peggiorato e non credo che ce la farà, penso anche ad una mia cara paziente che soffre di gravi problemi artrosici e che non riesce a trovare nessuno che le faccia delle iniezioni. Il mio pensiero va anche al mio giovane paziente allergico che ha dovuto rimandare i vaccini e rischia crisi asmatiche, alla mia assistita che soffre di emorragie mestruali incredibili per un fibroma uterino e che è già stata trasfusa più di una volta, ma gli interventi “non urgenti” sono rimandati.
Basta silenzi, basta litigi, come dice giustamente il collega Corio “impariamo dagli errori”, con umiltà. Non possiamo continuare a far finta che tutto funzioni e che sul territorio la situazione non sia drammatica: non lo sarà nei numeri, ma non si è gestita bene la situazione, che pure non è mai stata ai livelli di Bergamo o del Lodigiano. Non basta chiudere i sospetti in casa buttando via la chiave, lasciando le famiglie nell’impossibilità di aiutarsi a vicenda per timore del contagio, dimenticando che esistono altre patologie oltre al COVID. Ormai siamo ad un punto in cui i test sierologici, per quanto ancora imperfetti, potrebbero aiutare grandemente a capire chi può uscire, andare ad aiutare i malati e i disabili, tornare nelle fabbriche e nei negozi. Dobbiamo ripartire dal territorio, capire chi è protetto e chi deve ancora fare molta attenzione. Non ripetiamo l’errore che è stato fatto con i tamponi.
La mia, come quella degli altri colleghi che hanno fatto sentire la loro voce, non vuole essere polemica ma “correzione fraterna”, diciamo così. Siamo tutti nella stessa barca, ma qualcuno si è accorto che stiamo remando verso le cascate e non verso la riva”.