Secondo la legge egiziana, un accusato non può rimanere in carcere senza processo per più di due anni. Per il regista 22enne il periodo era scaduto il 1 marzo. Il giovane si era sentito male ed era stato portato nell'infermeria della prigione, "ma invece di curarlo e trasferirlo in un ospedale fuori dalla prigione lo hanno risbattuto in cella”, ha raccontato l'avvocato
Caso giudiziario 480: fine per decesso. Shady Habash è rimasto un numero, anche da morto. Il resto delle comunicazioni su quanto accaduto l’altra notte dentro la prigione di Tora, al Cairo, dove il 22enne ha perso la vita dopo essere rimasto in carcere oltre due anni per un videoclip satirico contro il presidente Abdel Fattah al-Sisi, sono ridotte al minimo: “Signora, suo figlio è morto poco fa in cella, può venire a riprendersi la salma“, si è sentita dire da un funzionario della prigione più temuta d’Egitto la madre del giovane regista.
E così la donna ha fatto, recuperando i resti del figlio e procedendo all’immediata sepoltura nella tomba di famiglia, in un cimitero alla periferia est della capitale. Sulle cause della morte di Shady Habash le nuvole si stanno diradando. Già ieri l’ipotesi dell’incuria da parte del personale carcerario di Tora aveva iniziato a emergere, ora i suoi ultimi giorni di vita sono stati praticamente ricostruiti: “Da tre giorni Shady stava male, una volta è finito in infermeria, ma invece di curarlo e trasferirlo in un ospedale fuori dal carcere lo hanno risbattuto in cella”, spiega l’avvocato della famiglia, Ahmed el-Khawaja. Che poi aggiunge: “Sulle cause esatte di quel malessere stiamo ricostruendo quanto accaduto”.
Il legale della famiglia di Habash preferisce tenere un profilo basso, eppure la dinamica appare nitida. Circa tre giorni prima, a seguito di uno degli ormai ripetuti attacchi depressivi provocati dalla forzata detenzione, Habash avrebbe ingerito del detersivo o un liquido corrosivo, qualcuno parla anche di alcol medicale. Un atto dimostrativo più che un tentato suicidio. Ma nonostante le lesioni riportate a seguito dell’ingestione, le autorità carcerarie non hanno ritenuto necessario il ricovero presso una struttura ospedaliera vera e propria. Habash è stato portato nell’infermeria della prigione, visitato e poi rispedito in cella dove l’altra notte è deceduto.
C’è poi un dettaglio procedurale fondamentale dietro la morte del ragazzo: Shady Habash non doveva essere in carcere. La procura, stando alla legge egiziana, avrebbe dovuto rilasciarlo il 1 marzo scorso per scadenza dei termini della detenzione preventiva, ossia due anni. Non essendo mai stato processato, Habash doveva essere fuori da Tora da oltre due mesi e invece è stato lasciato morire in cella.
Una prassi assurda quella della giustizia egiziana: udienze ripetutamente fissate e poi rimandate di 15 giorni nella prima fase e di 45 nella seconda. Il caso lasciato correre così, secondo una strategia il cui effetto è quello di logorare il detenuto e i suoi cari. È successo ad Habash e ad altre centinaia di detenuti, specie agli oppositori politici, membri della Fratellanza Musulmana e non, come il fotogiornalista Shawkan, oppure come Patrick Zaki, ancora in una fase embrionale del suo incubo. Zaki, anch’egli rinchiuso a Tora, sezione II ‘Scorpion’, è stato arrestato tre mesi fa e da quando è stato trasferito dalla prigione di Mansoura, a fine febbraio, continua a vedere la discussione del suo caso sempre rimandata di 15 giorni.
Shady Habash è stato arrestato nel marzo del 2018, in piena campagna elettorale per le presidenziali-farsa vinte dal presidente uscente, Abdel Fattah al-Sisi. Al regime non era piaciuto il videoclip della canzone Balaha (“dattero”, termine dispregiativo in arabo, diventato il nomignolo del presidente) cantata da Ramy Essam, uno dei cantori della Rivoluzione di piazza Tahrir nel 2011, oppositore del regime scappato in Svezia nel 2014. A girare quel video era stato proprio Habash, per questo arrestato e finito in prigione con le accuse, tra le tante, di essersi unito ad un gruppo terroristico, diffusione di notizie false e insulto ai militari.
La morte di Habash ha suscitato una vasta eco in Egitto: “Un altro campanello d’allarme per la giustizia e la libertà nel Paese, la conferma di una situazione sempre più critica” è il commento di Mohamed Lotfy, vicepresidente di Ecrf, l’organizzazione che dall’inizio del 2016 segue, tra gli altri, il caso della morte di Giulio Regeni per conto della sua famiglia. “Che siano maledetti il ministero dell’Interno e della Giustizia che ignorano gli appelli dei prigionieri”, attacca Mona Seif, attivista antiregime con il fratello Alaa rinchiuso a Tora e in sciopero della fame da alcune settimane. Infine Khaled Ali, noto avvocato del Cairo e politico che nel 2018 ha ritirato la sua candidatura alle presidenziali: “A meno che su di lui non penda una condanna a morte, dopo due anni senza processo il detenuto va rilasciato. Per Habash questo non è accaduto”.