Botta e risposta, durante la trasmissione Non é l’Arena su La7, tra il magistrato e il guardasigilli. Il primo ha affermato che nel 2018 il ministro gli aveva offerto di dirigere il Dipartimento amministrazione penitenziaria, offerta che sarebbe poi venuta meno. Alcuni giorni prima era iniziata a circolare la relazione con le reazioni rabbiose esternate dai boss mafiosi al 41bis sull'ipotesi di nomina di Di Matteo al Dap. Il ministro ha controreplicato: la circostanza che lui avrebbe cambiato decisione dopo aver saputo dell’intercettazione ("che peraltro era già stata pubblicata") "non sta né in cielo né in terra". Il centrodestra all'attacco del titolare di via Arenula: "Si dimetta". Il Pd lo difende. Renzi: "Sfiducia? Vediamo"
La guida del Dipartimento amministrazione penitenziaria o la poltrona che fu di Giovanni Falcone, un incontro tra l’allora neoministro della giustizia e il magistrato antimafia più noto del Paese, una proposta fatta e poi ritirata. O meglio modificata. In mezzo le intercettazioni dei boss mafiosi al 41bis che esternano tutti i loro timori per quella nomina al vertice delle carceri. Una designazione che alla fine non ci sarebbe mai stata. È un duro botta e risposta quello andato in onda su La7 durante la trasmissione Non è l’Arena. Un dibattito con due protagonisti d’eccezione: il magistrato Nino Di Matteo e il guardasigilli Alfonso Bonafede. Nessuno dei due è presente in studio ma entrambi alzano il telefono e chiamano in diretta per intervenire nel dibattito in corso.
Il dibattito sul Dap – Al centro della discussione c’è la poltrona al vertice del Dipartimento amministrazione penitenziaria. Un incarico che nelle ultime 48 ore ha cambiato titolare: il nuovo numero uno del Dap e il magistrato Dino Petralia, che ha lavorato per anni con Di Matteo alla procura di Palermo. Ha preso il posto di Francesco Basentini, dimissionario dopo le polemiche per le scarcerazioni dei boss, la circolare sulla gestione dei detenuti per combattere il contagio del coronavirus, le violentissime rivolte nelle carceri di inizio marzo. Come vice di Petralia il ministro Bonafede ha nominato – già prima delle dimissioni di Basentini – Roberto Tartaglia, anche lui ex pm di Palermo e molto vicino a Di Matteo: insieme hanno fatto parte del poll che ha indagato sulla Trattativa tra pezzo dello Stato e Cosa nostra.
“Il ministro mi ha proposto quell’incarico, poi ci ha ripensato” – Quella poltrona al vertice del Dap, però, in passato è stata accostata direttamente allo stesso Di Matteo. Durante la trasmissione su La7 viene evocata una “trattativa” tra il magistrato e l’allora neoministro della giustizia nel giugno del 2018. È a questo punto, poco prima della mezzanotte, che Di Matteo chiama in diretta. L’ex pm, oggi consigliere del Csm, ha preso il telefono per raccontare cosa dal suo punto di vista è successo due anni fa. “Io non ho mai fatto trattative con nessun politico né ho chiesto nulla ad alcun politico. Le cose sono andate diversamente. Venni raggiunto da una telefonata del ministro che mi chiese se ero disponibile ad accettare l’incarico di capo del Dap o in alternativa quello di direttore generale degli Affari penali, il posto che fu di Falcone”, è la ricostruzione del magistrato. “Io – continua – chiesi 48 ore di tempo per dare una risposta. Nel frattempo alcune informazioni che il Gom della polizia penitenziaria aveva trasmesso alla procura antimafia e anche al Dap avevano descritto la reazione di importantissmi capimafia. Dicevano: se nominano Di Matteo per noi è la fine”. Di Matteo racconta quindi che andò “a trovare il ministro dicendo che avevo deciso di accettare l’incarico al Dap, ma improvvisamente mi disse che ci aveva ripensato e nel frattempo avevano deciso di nominare il dottor Basentini. Mi chiese di accettare il posto di direttore generale del ministero, ma il giorno dopo gli dissi di non contare su di me”. Il magistrato siciliano puntualizza: “Ci aveva ripensato o forse qualcuno lo aveva indotto a ripensarci”.
“Esterrefatto, che avessi ritirato la proposta per paura è sua percezione” – Passano pochi minuti ed ecco che durante la trasmissione arriva la replica di Bonafede. Il mezzo è sempre lo stesso: una telefonata in diretta. “Rimango veramente esterrefatto – ha esordito il guardasigilli – nell’apprendere che viene data un’informazione grave nella misura in cui si lascia trapelare un fatto assolutamente sbagliato e cioè che sarei arretrato dalla mia scelta di proporre al dottor Di Matteo un ruolo importante all’interno del ministero perché avrei saputo di intercettazioni. Di Matteo lo stimo, ma dobbiamo distinguere i fatti dalle percezioni, perché dire che agli italiani che lo stato sta arretrano rispetto alla lotta mafia è un fatto grave”. La replica di Bonafede è piena di precisazioni: “Non sto chiamando né per difendermi né per dare chiarimenti, io metto davanti i fatti perché nei miei quasi due anni da ministro ho portato avanti solo leggi scomode, che mi fanno vivere sotto scorta, ho firmato 686 atti per il 41 bis. La questione – ricostruisce Bonafede – è molto semplice: io ho chiamato il dottor Di Matteo per la stima che ho nei suoi confronti, parlandogli della possibilità di fargli ricoprire uno dei due ruoli, o capo del Dap o direttore degli Affari penali, dicendogli che era mia intenzione farlo scegliere praticamente a lui, anche se ne avremmo parlato insieme. Nella stessa telefonata Di Matteo mi chiarisce che c’erano state nelle carceri delle intercettazioni nelle quali i detenuti avrebbero espresso la loro contrarietà alla sua nomina al Dap, credo abbiano detto facimmo ammuina“.
La controreplica: “Nessuna interpretazione, racconto fatti” – Il ministro della Giustizia continua, sottolineando di essere stato a concoscenza di quelle parole pronunciate dai mafiosi contro Di Matteo già prima di fargli la sua proposta: “Non sono uno stupido, sapevo chi è Di Matteo, sapevo chi stavo per scegliere, e tra l’altro l’altro quella intercettazione era già stata pubblicata sul Fatto Quotidiano e sono intercettazioni di cui il ministro dispone perché le fa la polizia penitenziaria”. In realtà l’articolo che riporta le parole dei mafiosi su Di Matteo è stato pubblicato dal Fatto il 27 giugno, mentre i colloqui di Bonafede col magistrato risalgono al periodo compreso tra il 15 e 20 giugno. Quando propone a Di Matteo un incarico il guardasigilli conosce comunque già le minacce dei boss al 41bis, perché sono contenute in alcune relazioni inviate al ministero il 9 di giugno.”Il fatto – continua – che il giorno dopo avrei ritrattato quella proposta in virtù di non so quale paura sopravvenuta non sta né in cielo né in terra. E’ una percezione del dottor Di Matteo. Quando lui è venuto al ministero gli ho detto che tra i due ruoli per me sarebbe stato molto più importante quello di direttore degli Affari penali perché era molto piu di frontiera nella lotta alla mafia. Quindi non gli ho proposto un ruolo minore nella lotta alla mafia. E a me sinceramente era sembrato che alla fine dell’incontro fossimo d’accordo”. Di Matteo, da parte sua, ha controreplicato: “Io oggi non ho fatto interpretazioni ho raccontato dei fatti precisi e li confermo. Preciso che non si trattava di una sola intercettazione, ma in piu sezioni di 41 bis c’erano state dichiarazioni fatte ostentatamente dai detenuti che, gridando da un piano all’altro, dissero che ‘se e arriva Di Matteo questo butta la chiave. Mi pare che il ministro abbia confermato i fatti, io non do interpretazioni”.
“Se mettono Di Matteo ci chiudono come topi” – Le intercettazioni alle quali fanno riferimento sia Di Matteo che Bonafede, come detto, sono quelle pubblicate del Fatto Quotidiano il 27 giugno, circa una settimana dopo il fallimento dei colloqui tra i due. Registrate dal Gom, il Gruppo Operativo Mobile della polizia penitenziaria guidato dal generale Mauro D’Amico, riportano i commenti di boss di Cosa nostra e camorra. È il 3 giugno del 2018, due giorni dopo che i ministri del nuovo governo formato da Lega e M5s hanno giurato al Quirinale. Nel carcere de L’Aquila Cesare Lupo, braccio destro di Giuseppe Graviano, il boss delle stragi, dice a un agente di polizia penitenziaria: “Appuntato, avete visto che come capo dipartimento (direttore del Dap, ndr) mettono a Di Matteo? Che vogliono fare? Stringerci ancora di più? Noi siamo già stretti, più di questo non possono fare”. Lupo non è stupido: sa che quelle parole finiranno in una relazione. Nello stesso giorno, nello stesso carcere, parla il camorrista Ferdinando Autore: “Questi – dice commentando un ritaglio di giornale – ci vogliono di nuovo chiudere come i topi. Qui c’è scritto che vogliono fare Di Matteo capo delle carceri. Questi so’ pazzi, amma a’ fa ammuina (dobbiamo fare rumore, ndr)”. Tre giorni dopo Sandro Lo Piccolo, capomafia della cosca di San Lorenzo, sta guardando in tv la diretta sul voto di fiducia alla Camera: “Siete dei vigliacchi, avete solo la mafia in testa, questi ci toglieranno pure la liberazione anticipata”. Una strana affermazione per uno che come Lo Piccolo è condannato all’ergastolo. È probabile, dunque, che il capomafia volesse lanciare un messaggio.
La ricostruzione della vicenda – In realtà quando i mafiosi decidono di rendere pubblica la loro disapprovazione per Di Matteo come nuovo capo del Dap, il magistrato non ha ancora ricevuto alcuna proposta dal neo ministro della Giustizia. Le relazioni con le parole dei mafiosi finiscono sul tavolo del ministero il 9 giugno. Sei giorni dopo, il 15, Bonafede fa la sua prima chiamata a Di Matteo. Che, come ha raccontato in diretta televisiva, si prende 48 ore di tempo per decidere. Il 19 giugno – come confermano le agende del guardasigilli – i due s’incontrano: il magistrato spiega che preferirebbe andare al Dap. Il ministro replica: lo vedrebbe meglio agli Affari penali, dentro al ministero della giustizia, a scrivere le leggi. Anche perché nel frattempo ha proposto quell’incarico a Francesco Bassentini, un nome che gli era stato fatto dal suo vicecapo di gabinetto. I due si lasciano: Bonafede sostiene che quel giorno era convinto di avere ricevuto l’assenso di Di Matteo. Il quale però il giorno dopo – siamo al 20 di giugno – torna in via Arenula e rifiuta l’offerta.
Il centrodestra all’attacco del guardasigilli: “Si dimetta” – Il botta e risposta è immediatamente diventato argomento di dibattito politico, con il centrodestra che ha chiesto le dimissioni di Bonafede. “Ai disastri si aggiungono ombre sul comportamento del guardasigilli. Fossi Alfonso Bonafede, domani mattina rassegnerei le mie dimissioni di ministro della Giustizia”, scrive su facebook la leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni. “Bonafede non può più essere il ministro della Giustizia. Dopo le dichiarazioni gravissime del dottor Di Matteo e le risposte imbarazzanti rese dallo stesso Guardasigilli, non resta che questa decisione già indicata da tempo dalla Lega sin dal primo giorno dello scandalo sulle scarcerazioni ai boss mafiosi”, dicono i parlamentari del Carroccio in commissione Antimafia. Persino Forza Italia usa le dichiarazioni del magistrato – in passato attaccato e insultato per le sue indagini su Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri – per attaccare il guardasigilli. “Riassumendo: prima Bonafede permette che diversi boss escano dal carcere. Poi Di Matteo dichiara di non essere stato nominato a capo del Dap per le pressioni della mafia e i 5s non ne chiedono le dimissioni? Il Governo deve riferire in Aula e dare spiegazioni agli italiani”, twitta Gabriella Giammanco, vicepresidente del partito azzurro al Senato. In Forza Italia c’è però chi non riesce proprio ad avvicinarsi alle posizioni di Di Matteo, e attacca sia l’ex pm che Bonafede: “L’unica certezza nella diatriba tra il pubblico ministero, Nino Di Matteo, e il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, è che il senso dello Stato è stato calpestato”, scrive in una nota Giorgio Mulè, portavoce unico dei gruppi azzurri di Camera e Senato.
Il Pd difende Bonafede. Renzi: “Sfiducia? Vediamo” – Difende il guardasigilli, invece, il vicesegretario del Pd – ed ex ministro della Giustizia – Andrea Orlando: “So che Bonafede forse non ragionerebbe così, ma se un ministro dovesse dimettersi per i sospetti di un magistrato, si creerebbe un precedente gravissimo. Il sospetto non è l’anticamera della verità, sinché non verificato resta un sospetto”. I dem sono tutti dalla parte di Bonafede. Il capogruppo al Senato Andrea Marcucci definisce le parole di Di Matteo “oggettivamente molto più inquietanti di quelle usate dal guardasigilli. Da un membro del Csm ci si aspetterebbe la scelta di luoghi più consoni per rivelare le sue verità. Che sulla intera vicenda, ci sia bisogno di fare chiarezza in Parlamento, non c’è dubbio. Dall’idea che mi sono fatto, però il Guardasigilli è la parte lesa: il sospetto non può mai diventare l’anti camera della verità”. Matteo Renzi, come spesso accade, usa toni più simili all’opposizione nonostante sia ancora formalmente sostenitore del governo. “Siamo in presenza di una clamorosa vicenda giudiziaria che rischia di essere il più grave scandalo giudiziario degli ultimi anni”, sostiene il leader di Italia Viva. Che parla di una mozione di sfiducia a Bonafede: “Prima di parlare di mozioni di sfiducia, che fa la destra, vogliamo vedere. Prima ancora di arrivare lì voglio vedere se è un regolamento di conti, voglio sapere la verità”. In realtà nessuno dell’opposizione oggi ha mai parlato di una sfiducia al guardasigilli. Il primo a citare l’opzione è proprio Renzi.