Il presidente di ArcelorMittal France ha annunciato lo spegnimento di un altoforno e di diverse cokerie nello stabilimento di Fos-Sur-Mer, nei pressi di Marsiglia. Una decisione che “potrebbe avere ripercussioni negative anche in Italia”, avvisa la Fiom-Cgil perché i siti di Genova-Cornigliano e di Novi Ligure si riforniscono dallo stabilimento marsigliese.

Due terzi delle produzioni dello stabilimento Fos-Sur-Mer sono, infatti, destinati ai mercati di Italia e Spagna: dall’acciaieria marsigliese si rifornisce per parte della loro attività, nello specifico, insieme ai due stabilimenti liguri, quello spagnolo di Aviles. “La fermata di Fos-sur-Mer è quindi legata ad un rapporto di causa-effetto con il nostro mercato, le nostre produzioni, gli assetti complessivi del gruppo ArcelorMittal – spiega Gianni Venturi, segretario nazionale e responsabile siderurgia della Fiom – Su questo è indispensabile tornare a confrontarsi con il governo e con l’azienda”. La paura dei 2.500 lavoratori dello stabilimento francese, ha aggiunto, è che si possa replicare quanto è avvenuto negli anni scorsi per il sito di Florange nel 2013: prima una fermata parziale e temporanea degli impianti, poi la chiusura definitiva.

In Italia, l’emergenza coronavirus ha inevitabilmente fermato a febbraio le lancette dell’orologio della vertenza ex Ilva ma le scadenze e, soprattutto, i nodi irrisolti tornano a premere in tutta la loro urgenza. “Piano industriale, assetti societari, ruolo dello Stato, prospettive ambientali ed occupazionali del Gruppo – dice sempre Venturi – non sono dettagli marginali di un confronto che, in realtà, non è mai iniziato”. Necessario e urgente, richiede la Fiom, che il governo istruisca, anche da remoto, tempi e modalità di un negoziato “che, nessuno si illuda, possa essere saltato a piedi pari: l’emergenza Covid-19 è una ragione di più non una di meno per ricercare scelte sostenibili e condivise”.

Intanto dopo la frenata durante il lockdown, ArcelorMittal Italia ha comunicato l’intenzione di riavviare alcuni impianti dell’area a fredda a Taranto con il rientro dalla cassa integrazione per Covid-19 di 630 lavoratori, a partire dall’11 maggio, per la lavorazione di commesse precedenti l’emergenza sanitaria. Sono “sicuramente un fatto positivo, un timido passo in avanti”, ha commentato il segretario generale aggiunto della Fim Cisl Taranto-Brindisi, Biagio Prisciano. Non sufficiente, però, per rasserenare gli animi: “L’azienda deve uscire allo scoperto, mostrando le reali intenzioni – ha aggiunto – non trincerandosi dietro la cassa integrazione ordinaria legata al Covid-19”.

Dopo mesi di incertezza, in cui ArcelorMittal Italia minacciava di andarsene da Taranto, a marzo l’azienda aveva firmato con il governo l’accordo che cancellava le cause civili in corso e modificava il contratto di affitto e acquisizione, con la finalità di rinnovare il polo siderurgico. Per i sindacati un accordo ‘vuoto’: da allora, infatti, la paura è quella di un abbandono improvviso dello stabilimento. Per questo la richiesta è sempre la stessa: chiarezza riguardo il destino di Ilva. “Come intende ArcelorMittal traguardare i prossimi mesi? Quali sono i progetti per il futuro e quali le operazioni di manutenzione? – ha sottolineato Prisciano – Non si può vivere di soli ammortizzatori sociali. In questa fase le aziende devono mettere in campo tutti gli strumenti utili e necessari al fine di programmare gradualmente un piano strategico di ripartenza. ArcelorMittal non può sottrarsi alla proprie responsabilità”.

Secondo il segretario della Fim Cisl, l’azienda non è l’unica a dover dare spiegazioni, ma anche il governo “deve chiarire tutti gli aspetti dell’ultimo accordo del marzo scorso, che lo ha visto protagonista della realizzazione di un nuovo ‘piano segreto’ con Ilva in Amministrazione straordinaria e ArcelorMittal, senza il coinvolgimento delle organizzazioni sindacali”.

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