di Laura Quarà *
Lo smartworking è stato concepito e normato nella sua accezione originaria come strumento organizzativo e di conciliazione vita-lavoro. La situazione emergenziale ha portato rapidamente a un’estensione erga omnes di questa modalità di lavoro. Alcune realtà che già utilizzavano lo strumento regolamentavano il suo utilizzo per alcuni giorni al mese, mentre altre che non lo avevano ancora introdotto hanno dovuto provvedere gioco forza e in tempo zero al suo utilizzo.
Da un lato, lo spirito di adattamento e la versatilità delle nostre imprese sono state davvero sorprendenti, spinte dal bisogno di fornire a molti lavoratori l’accesso a “strumenti di lavoro ” out office ma anche di mantenere adeguati livelli di produttività, in particolare per le funzioni a supporto del business o della produzione, sia di beni che di servizi.
Dall’altro, questa emergenza ha inciso sulla “modalità” di fruizione da parte del lavoratore – che da volontaria è diventata obbligatoria – e sul concetto di “tempo” del suo utilizzo in termini di giornate lavorative, con impatti imprevedibili sull’organizzazione del lavoro.
Molte realtà quindi hanno dovuto bypassare la fase di sperimentazione, che caratterizza l’introduzione di tutti i progetti innovativi, per accedere immediatamente alla fase esecutiva/operativa a scapito di un accesso graduale e di una formazione specifica anche del management, non tanto sulle modalità di utilizzo quanto sulla natura e sulle variabili individuali e socio-organizzative.
La legge come noto prevede la regolamentazione del lavoro agile con accordo individuale, ma spesso i sindacati vengono coinvolti per una disciplina d’insieme. Senza provocazione mi domando ora: lo smartworking sarà ancora uno strumento di contrattazione aziendale? L’emergenza coronavirus come ha impattato su questo “cavallo di battaglia” per molti attori aziendali, sindacato incluso?
Al di là dell’analisi di costi/benefici di una eventuale estensione e di una diversa regolamentazione rispetto all’attuale, sorgono spontanee alcune riflessioni che potrebbero portare a modificare in modo sostanziale il rapporto di lavoro delle persone con le loro imprese.
Le direzioni del personale e i responsabili organizzativi potrebbero cogliere questo momento storico sia per ripensare a politiche di gestione delle risorse e di formazione riposizionate su diverse dimensioni valoriali, sia ad introdurre nuovi paradigmi di riprogettazione organizzativa, che riportino al centro anche il benessere della persona.
Nel concreto si potrebbe in primo luogo procedere con questionari a tutto il personale interessato per capire come sia stata vissuta l’esperienza forzata dello smartworking sia per il personale che già lo utilizzava, sia per quello che si è trovato ad utilizzarlo per la prima volta, per conoscere gli effetti di una connessione prolungata e giornaliera sul proprio lavoro rispetto ad una serie di parametri quali ad esempio benessere, qualità della prestazione, aspetti tecnici, relazioni, integrazione, tecno-stress, stress in generale, valutazione complessiva dell’esperienza, ecc.
Questa survey potrebbe essere attivata anche dalle organizzazioni sindacali perché la diffusione fortemente consigliata di questa modalità di lavoro – indotta da fattori esterni come quello del coronavirus – è unica nel suo genere e deve essere esplorata, a mio avviso anche indipendentemente dallo smartworking, per gli impatti sull’individuo e sul sociale che una siffatta gestione degli eventi ha sicuramente provocato sui lavoratori.
Una analisi attenta dei risultati darà adito a riflessioni e supporterà l’attivazione di piani di azione da entrambe le parti. Gli esiti potrebbero per esempio parlare all’organizzazione e al sindacato circa la necessità di una ricontrattazione del lavoro agile così come inteso sinora o di un’attivazione di progetti formativi su temi specifici (per esempio la gestione dello stress, la gestione della relazione per rafforzare l’appartenenza); o ancora di una riprogettazione dell’organizzazione del lavoro, non solo in termini di spazi.
Gli esiti potrebbero altresì portare a rivedere le modalità di gestione del personale e del sistema premiante – che per gli smart worker richiederà parametri diversi dal passato – per evitare una frattura tra smart worker e non, laddove questa modalità potrebbe essere percepita da questi ultimi come una forma di discriminazione non facilmente colmabile con integrazioni salariali o indennità.
Rispetto al passato sarà però difficile salvaguardare le autonomie di scelta di questo strumento da parte delle aziende e del lavoratori perché – almeno nel medio periodo – tutte le iniziative che gli attori sociali potrebbero intraprendere in proposito saranno subordinate alle indicazioni del Governo e dell’ Autorità Sanitaria.
Proprio in questo senso, al di là dell’emergenza, una eventuale “estensione obbligatoria” di questo strumento in termini di durata temporale – che in epoca ante-coronavirus era contenuto in alcuni giorni al mese – pone interrogativi importanti soprattutto sugli effetti dell’utilizzo prolungato delle tecnologie (rischio technostress) e sulla Ict self-discipline, intesa come capacità di autoregolamentare l’utilizzo degli strumenti informatici.
E a questo riguardo, sempre per fornire qualche spunto, debbo dire che molte persone da me intervistate recentemente affermano di lavorare di più e per più tempo da casa rispetto all’ufficio, con una complessità ulteriore, rappresentata dall’utilizzo contemporaneo di più device (computer, telefono, videochiamate in multipresenza, ecc). Questa situazione di rischio o comunque disfunzionale andrà adeguatamente considerata dalle aziende e monitorata con finalità di tutela dalle rappresentanze sindacali.
* Laureata in Psicologia del Lavoro ha conseguito un Master in Business Administration. Ha maturato un’esperienza pluriennale nelle Direzioni del Personale di Organizzazioni Aziendali complesse. Da alcuni anni è consulente per realtà Finance ed Insurance. E’ specializzata su temi di Conflittualità Organizzativa, Stress Lavoro Correlato, Mobbing e Straining.