Tic-tac, tic-tac: altro che lockdown, è cominciato il count-down anche per il mondo della montagna. Tutti bramano la nueva normalidad, come viene chiamata in Spagna dal premier Pedro Sanchez la vita dopo il Covid-19. E gli appassionati di alpinismo fremono per tornare in ambiente, come prima e più di prima.

Se ne parla da settimane nel Club alpino italiano, nelle località turistiche coinvolte, tra le guide alpine, i gestori dei rifugi, i responsabili dei parchi, i campioni delle varie discipline di montagna, con i grandi interessi commerciali che ne amplificano gli interventi, e le gesta, attraverso i social-media. Sui media tradizionali sono intervenuti alcuni scrittori di peso, come l’iconico Mauro Corona nei suoi siparietti televisivi a Cartabianca, il generoso Paolo Cognetti, che spazia dalle riviste anarchiche ai giornali istituzionali, l’inviato di guerra del Corriere della Sera Lorenzo Cremonesi, grande appassionato di montagna, e altri ancora (vedi l’intervento di Stefano Ardito).

Adesso si prevedono possibili riaperture dei rifugi a numero chiuso, con camerate semivuote e spazi per dormire in tenda fuori, kit di sanificazione con ionizzatori, distributori di mascherine, guanti e gel disinfettante, controlli con termometri digitali e saturimetri, turni rigidi e contingentati per mangiare, igienizzazione degli ambienti continuativa, soprattutto nelle toilette. Altro che nueva normalidad!

Se ciò è possibile nei moderni e ordinati rifugi svizzeri, che stanno già riaprendo, da noi sembra di parlare di Marte, per chi conosce certi ambienti in questione, soprattutto quelli intorno alle cime più conosciute e facili. E, poi, non bisogna dimenticare nemmeno che la parola stessa ‘rifugio’ – che diventa ‘bivacco‘ per le capanne non custodite nei luoghi più impervi, di cui alcuni davvero infrequentabili o a volte strapieni -, sta anche a indicare che si tratta di costruzioni dove possono riparare i viandanti al bisogno, per il maltempo o il calar delle tenebre: una funzione originale mantenuta dai rifugi dei Club alpini, anche se purtroppo è stata piegata agli interessi, sulle principali rotte di montagna, con frequentatori accatastati a dormire per terra nei locali comuni nelle giornate clou dell’estate.

Ma arriviamo subito al punto, che dovrebbe essere quello di approfittare dell’occasione Covid per ripensare alle storture del nostro modo di vivere, la montagna come il resto, sotto il profilo ecologico, idealmente, culturalmente e praticamente. Certo, per esempio gli impiantisti del Dolomiti Superski, che si apprestano a riaprire per la stagione estiva, parlano di un centinaio di funivie e seggiovie che daranno “un contributo sostenibile alla mobilità nelle 12 valli dolomitiche, portando le persone in quota senza dover fruire del traffico motorizzato”. E i vari Cai dicono di preoccuparsi dell’equilibrio del sistema montagna, in una lettera aperta al presidente Conte.

Ma al di là delle chiacchiere, restano i problemi principali: sintetizzando, ‘overtourism’ e ossessione della performance sono le piaghe tardo-capitaliste che hanno afflitto anche i sentieri alti. Nonostante gli sforzi encomiabili di tante persone e associazioni, la distruzione turistica delle montagne era diventata evidente a tutti, nella parte pre-Covid del 2019, grazie a immagini emblematiche come le code in cima all’Everest o la foto del presidente Macron che annuncia sotto al Monte Bianco una serie di provvedimenti per limitare la follia dell’assalto alla cima più alta d’Europa (vedi vari interventi in questo stesso blog).

L’alpinismo tradizionale non ha saputo resistere alla seduzione della monocultura economico-finanziario, all’ideologia dello sviluppo ad ogni costo e dell’istantaneità, ed è stato travolto da una grande varietà di nuove discipline sempre più esasperate e finalizzate esclusivamente alla comunicazione. Il Grande Vecchio Reinhold Messner ha auspicato, nella sua rubrica sulla Gazzetta dello Sport, che la pandemia sia l’occasione buona per ripensare da zero il nostro rapporto con la montagna, applaudendo la classe dell’ultima purista Silvia Vidal, la straordinaria catalana che scala su pareti poco battute in solitaria, senza nemmeno telefono o radio, e che è davvero una mosca bianca nel mondo dell’alpinismo (per l’ultima impresa).

Sullo sfondo di una possibile nuova normalità, c’è la grande incognita ecologica, del riscaldamento globale e dell’inquinamento, che tra l’altro hanno reso sempre meno agibili le montagne del mondo sotto il profilo della sicurezza, persino durante la stagione fredda (sono fallite persino le ultime spedizioni invernali agli Ottomila).

Bisogna inoltre considerare che post-Covid, come noto e bene spiegato già da Luca Mercalli sul Fatto, disponiamo di previsioni del tempo ancor meno attendibili, per l’interruzione della messe di dati che arrivavano dagli aerei e dalle navi, le difficoltà degli interventi di manutenzione sugli impianti di rilevazione atmosferica e via elencando. E non c’è bisogno di sottolineare quanto possa pesare un margine di errore meteorologico più alto a chi s’avventura per le montagne.

Prima e più ancora che di una Fase 2, dunque, sarebbe necessario un radicale ripensamento e una rifondazione dell’alpinismo, oppure non abbiamo ancora imparato che il rispetto per l’ambiente e la tutela della sicurezza sono priorità?

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