Per anni, su questo spazio, ho denunciato la totale (o quasi) assenza di una politica di ampio respiro per il Sud. È un dato di fatto che la spesa ordinaria in conto capitale abbia raggiunto nelle regioni meridionali, in valore assoluto, i 6,2 miliardi nel 2018, ossia solo il 22,5% dell’impegno su scala nazionale; lo rimarca ora il nuovo Piano Sud 2030, che contiene gli impegni del Governo e del ministro Peppe Provenzano, giovane e preparato intellettuale di area Svimez. Il Piano progetta politiche specifiche su scala temporale decennale.
Vi si riconosce che attribuire al Sud investimenti che non rispettino neanche il suo peso in termini demografici (34% della popolazione) è uno sfregio non solo al buon senso ma al futuro del Paese. Tutto questo, da anni, comporta l’effetto inevitabile di vanificare le politiche di coesione, sia quelle europee che quelle nazionali.
D’altronde, per chi abbia approfondito letture sull’intervento straordinario nel Mezzogiorno, “è ben noto che le risorse straordinarie per il Sud abbiano sempre funzionato da salvadanaio per risparmiare sulle spese ordinarie da farsi al Sud, come nel resto d’Italia”. Dal Piano Sud 2030 apprendiamo addirittura che “le risorse aggiuntive rappresentano mediamente più della metà della spesa in conto capitale complessiva”.
Questo comporta la convenienza, per certi esecutivi, di mantenere in piedi un’area di sottosviluppo, per risparmiare sugli investimenti nel Mezzogiorno, al fine di dirottare altrove le spese ordinarie. E talvolta anche quelle straordinarie: la storia insegna parecchio, in proposito. È pur vero che non stiamo scoprendo nulla: il giochino poco virtuoso della spesa straordinaria era stato svelato, in primis, da Pasquale Saraceno e più recentemente da Adriano Giannola, due pilastri del pensiero neo-meridionalista, sorto dalle ceneri della Seconda Guerra Mondiale, per la ricostruzione del Paese e della sua dignità.
Il Piano per il Sud aggiunge un ulteriore tassello: le spese europee rischiano ormai di diventare “doppiamente sostitutive”, ossia sostitutive non solo di quelle ordinarie, ma anche di quelle distribuite dalle politiche nazionali di Coesione.
Dal governo Gentiloni, l’attuale esecutivo ha ereditato la cosiddetta clausola del 34%, rafforzandone la “cogenza normativa”: il 34% delle risorse di qualsiasi investimento nazionale deve rispettare questa clausola di ripartizione che rispetti il dato demografico. Per intendersi bene: “i fondi europei non devono essere utilizzati per garantire i Livelli Essenziali delle Prestazioni (Lep)”, introdotti dal Titolo V della Costituzione.
Si tratta di un dovere da assolvere mediante spesa ordinaria, non tramite quella straordinaria, che invece deve essere destinata alle progettualità e all’ammodernamento. Sembrerebbe ovvio, ma certi approcci localistici alla politica economica ne hanno impedito di fatto l’attuazione, trasformando il rispetto della clausola in una “conquista”.
Il Piano Sud 2030 prevede l’incremento delle risorse destinate al Fondo di Sviluppo e Coesione nel periodo 2021-2027 (dallo 0,5% del Pil sarà portato allo 0,6%), con una dotazione complessiva di 73,5 miliardi. Questo fondo, va ricordato, ha un vincolo di destinazione dell’80% alle aree di sottosviluppo.
“Istruzione”, “infrastrutture”, “ecologia”, “Mediterraneo”, sono le parole chiave del Piano, che è utile leggere in quanto pare che, finalmente, il vuoto di politica di coesione nazionale, persistente almeno dagli Anni Novanta, sembra potersi colmare. Bisognerebbe lavorarci, con impulso ed entusiasmo, in quanto il punto di partenza di questo progetto di respiro decennale è la constatazione dell’interdipendenza tra le aree del Paese. L’intento è quello di parlare di Sud, ma nell’interesse del Paese intero.
Ogni area d’Italia dipende dal comportamento e dai risultati delle altre. La pandemia Covid-19 ci ha insegnato che nessuno si salva da solo. Che sanità e ricerca devono essere la prima preoccupazione di un Paese avanzato. Che le politiche che riguardano la tutela dei diritti fondamentali degli Italiani, come sanciti dalla Costituzione, non possono essere delegati a enti locali.
Gli ultimi venti anni hanno denunciato un gravissimo ampliamento delle disuguaglianze territoriali in Italia, accompagnato da un drammatico indebolimento del nostro welfare. La sanità pubblica nazionale è in questi giorni al centro dello sforzo colossale di medici, infermieri e operatori sanitari, per fronteggiare il coronavirus. Le nazioni con poco welfare pagheranno più delle altre in vite umane il guado della pandemia. Lo dimostrano i dati.
Inoltre, le risorse europee del cosiddetto “Recovery fund”, voluto soprattutto dal Governo italiano, saranno fondamentali per sostenere i paesi più colpiti dal Covid-19 in area euro: Spagna e Italia in testa. Se funzionerà bene, sarà un’opportunità di “rigenerazione”, dopo la sciagura, in seno a una strategia europea.
Dobbiamo sperare che queste risorse siano cospicue e ben spese, sapendo che è fondamentale, come insegnava Saraceno, ricordare che “bisogna sempre mettere i numeri accanto ai problemi”.
Nei giorni scorsi sono stati resi noti gli impegni del nuovo responsabile economia del Pd, Emanuele Felice, in un articolo apparso sul web. Anch’egli sottolinea l’importanza di lavorare a un Paese meno diviso, che viva un nuovo senso di comunità nazionale, ripartendo da imprese, lavoro, terzo settore e mondo della scienza e della ricerca.
È condivisibile l’idea di porre l’innovazione al servizio dell’ambiente e della lotta alle disuguaglianze, proprio ora che sta emergendo l’esigenza di un nuovo patto tra scienza e società. Felice propone un nuovo, ambizioso modello di sviluppo: da molto tempo non sentivo parlare di “sblocco dell’ascensore sociale”, di liberazione del potenziale produttivo.
Confido che sia giunto il momento di disporre davvero le cifre accanto alle disuguaglianze sociali, territoriali e di genere. E di porre mano ai divari. Di superare l’approccio pluridecennale degli “interventi a pioggia” così come di quelli concentrati in poche “aree locomotiva”. Sono due facce della medaglia del fallimento a cui hanno candidato l’Italia.