Bruno Pizzul ha passato tutta una vita a misurare le parole. Eppure, in quell’8 aprile del 1998, anche lui è rimasto spiazzato. “È stato furbo Weah che si è aiutato con una spintarella – dice a Paolo Negro nel dopopartita – ma siete stati un po’ polli anche voi, eravate in quatto contro uno”. Perché se il Milan è riuscito a battere la Lazio nella finale di andata di Coppa Italia, il merito è soprattutto di Sebastiano Rossi. Il portiere rossonero ha compiuto almeno tre parate decisive e poi, al 90’, ha trasformato un rilancio con i piedi in un assist capace di tagliare fuori tutta la retroguardia biancoceleste e pescare George Weah.
Solo che l’idea che un pallone potesse viaggiare da porta a porta trasformandosi in una minaccia era visto ancora come qualcosa di piuttosto singolare. Perché fino a qualche tempo fa chi portava il numero uno sulle spalle doveva fare quasi esclusivamente una cosa: parare. Un concetto che, a poco più di vent’anni di distanza, appare ormai anacronistico. L’evoluzione, o perfezionamento, del ruolo è culminata con l’alba di un’era in cui l’affidabilità di un estremo difensore non basta più. E gli anni Novanta hanno funzionato da acceleratore. Il divieto di raccogliere con le mani il retropassaggio del compagno (introdotto nel 1992), l’affermazione della zona, l’estinzione del libero, la diffusione del pressing hanno fatto sì che il numero uno si trasformasse nella figura più completa all’interno di una squadra. Non più semplicemente portiere, ma keeper-sweeper, il portiere libero, una figura che somma i compiti dell’estremo difensore, del vecchio numero sei e del primo costruttore.
Una tendenza che ha portato anche a un cambiamento “anatomico”. Il portiere non utilizza più solo le mani, ma anche la testa per anticipare in uscita l’attaccante avversario e i piedi per iniziare a cucire l’azione. Avere un portiere moderno in squadra, dunque, significa garantirsi la possibilità di utilizzare al meglio tutti gli undici giocatori in campo. Una necessità che è diventata ancora più impellente negli ultimi 10-15 anni, quando la maggioranza degli allenatori ha progressivamente abbracciato, seppur con metodi diversi, l’idea di costruire l’azione dal basso. Il lancio lungo del portiere per cercare la spizzata di testa dell’attaccante viene ormai considerata una pratica poco remunerativa. Il perché lo spiegano i numeri.
In questa stagione i portieri delle 20 squadre di Serie A hanno fatto registrare una precisione nei lanci lunghi del 40,1%. Vuol dire che meno di una volta su due l’attaccante riesce a stoppare e a mettere il pallone a terra. Poi, però, inizia una nuova fase, ancora più complessa, durante la quale la punta deve proteggere la sfera del difensore o trovare l’appoggio per il compagno. Una fase in cui l’efficacia pratica del lancio lungo scende sensibilmente al di sotto di quel 40,1%. Lanciare la palla sulla testa dell’attaccante, dunque, significa offrire al difensore avversario una doppia chance di riconquistare la sfera: in maniera diretta (anticipo o contrasto vinto, ma anche semplicemente grazie a un rilancio errato che cade in una posizione sguarnita o direttamente in rimessa laterale) o indiretta (quindi sulle seconde palle).
La via più rapida per arrivare alla porta avversaria, dunque, non è anche la più efficace. Meglio provare a far partire l’azione da dietro, direttamente dal portiere, in modo da creare subito una superiorità numerica in grado di eludere il pressing avversario e liberare la punta. L’attenzione dedicata alla partecipazione del numero uno alla costruzione dal basso emerge anche da un nuovo utilizzo di termini che prima erano propri di altri settori. Leggendo le tesi disponibili sul sito di Coverciano, infatti, ci si imbatte nell’espressione “qualità tecniche podaliche”, dove un termine generalmente utilizzato in ostetricia viene ora impiegato per indicare quell’insieme di (nuove) capacità tipiche dell’estremo difensore moderno. I portieri, da qualche anno ormai, effettuano più passaggi rispetto agli attaccanti (nella Roma, ad esempio, Pau Lopez scarica 28,3 palloni in media a partita contro i 22,8 di Edin Dzeko, mentre in Argentina-Croazia ai Mondiali russi Caballero, autore di un clamoroso errore, ha effettuato 38 suggerimenti, ossia 6 in più di Messi e 27 in più rispetto ad Aguero), una centralità che non lascia spazio a errori.
Nel 2017/2018 i portieri hanno fatto registrare il 60,5% di passaggi riusciti, mentre ora, quasi due anni più tardi, il dato è salito al 67% (Radu viaggia al 90,9% di suggerimenti effettuati con successo, Silvestri, il peggiore, si attesta al 40,4%). Saper scaricare il pallone, però, non basta. Bisogna imparare a eludere la pressione dell’attaccante avversario grazie a una finta, a leggere la postura dei propri compagni di squadra, a muoversi in modo da poter essere serviti e guadagnare metri. Perché un palleggio insistito al limite della propria area di rigore non può essere solo sterile, ma anche controproducente. Nella sua tesi di Coverciano, Massimiliano Magi punta l’attenzione su un concetto importante: i portieri devono necessariamente perfezionare la loro capacità di servire key –pass, passaggi chiave, quelli che permettono di saltare una linea del pressing. Un’abilità che, se perfezionata, non solo costringe gli avversari a cambiare il proprio modo di stare in campo (difesa alta e pressing sul portatore di palla possono diventare addirittura pericolosi) ma permette agli estremi difensori di diventare preziosi in fase di impostazione. Da portiere libero a portiere regista, dunque.
Il che fa nascere un’altra considerazione: i numeri uno possono essere utilizzati per creare occasioni da gol? O, ancora, i key pass possono evolversi fino a diventare veri e propri assist o, quanto meno, possono creare situazioni pericolose? Una sintetica analisi delle prestazioni di ter Stegen, Alisson ed Ederson, i tre che in questo momento rappresentano al meglio l’evoluzione del ruolo, conduce a una risposta sicuramente positiva. Il portiere del Barcellona, ad esempio, ha completato con successo l’82,1% dei 27 passaggi effettuati in media a partita (dati Whoscored). Senza contare i due assist per i compagni e i due passaggi chiave fatti registrare fino alla sospensione della Liga. Alisson, invece, smista per i Reds una media di 28,2 palloni a match, con una precisione dell’84% (che in Champions League sale addirittura fino al 90%), mentre gli assist e i passaggi chiave sono “fermi” a uno.
Emerson, che dell’assist per le punte aveva fatto quasi un biglietto da visita, è ancora alla ricerca della sua prima assistenza stagionale in Premier League, mentre i suoi dati raccontano di 22,6 passaggi a partita con un’accuratezza dell’86,6%. E in Italia? Secondo i dati Opta nessun portiere di Serie A è ancora riuscito a servire un assist diretto. Eppure il numero delle occasioni da gol create dai portieri comincia a essere rilevato e analizzato. Sono sette gli estremi difensori che sono riusciti a creare pericoli agli avversari: Skorupski (Bologna), Joronen (Brescia), Perin (Genoa), Strakosha (Lazio), Radu (Genoa e Parma), Consigli (Sassuolo), Sirigu (Torino) e Musso (Udinese). Certo, la difficoltà del gesto tecnico, la distanza dalla porta avversaria e la densità di giocatori che occupa lo spazio fra le due aree fanno in modo che il totale di occasioni create sia ancora contenuto: 13 in tutto. Soltanto tre portieri, poi, sono riusciti a creare più di un grattacapo alla retroguardia avversaria. E se Strakosha e Consigli sono appaiati con due occasioni a testa, il primatista di questa nuova e particolare specialità è Radu, con 4 (un bottino notevole se si pensa che quello che doveva essere il centravanti titolare della squadra, Andrea Pinamonti, è fermo a 11). Cifre ancora residuali, certo, ma che in un futuro prossimo sono destinate a crescere notevolmente.